Attualità
Peppino Impastato: il coraggio della battaglia
A quarant'anni dall'assassinio del giovane giornalista siciliano
Roberto Bertoni | 8 maggio 2018

"Peppino è vivo e lotta insieme a noi!": era questo lo slogan scandito dai suoi amici e compagni di lotta il giorno dei funerali. 

Peppino Impastato, quarant'anni fa. Fu ucciso dalla mafia a soli trent'anni perché dava fastidio, con la sua Radio Aut sempre in prima fila a denunciare e, soprattutto, a sbeffeggiare il potere mafioso di don Tano Badalamenti, "'u zu Tano" o "Tano seduto", come lo chiamava ironicamente Impastato, arrecando alla mafia la più profonda delle ferite, ossia l'irrisione. Oltretutto, non aveva paura di chiamare la medesima col suo nome, in una stagione nella quale molti invece sostenevano ancora, con somma ipocrisia, che non esistesse e che il fenomeno criminale che era sotto gli occhi di tutti fosse un qualcosa di secondario, di non preoccupante, una normale attività malavitosa con la quale, in qualche modo, bisognava trovare una forma di convivenza. Peppino, al contrario, gridava, sosteneva apertamente che la mafia fosse "una montagna di merda", parlava del comune di Cinisi come del Maficipio di Mafiopoli, non risparmiava nessuno e amava la politica in maniera dirompente, al punto da arrivare a candidarsi alle elezioni comunali nelle file di Democrazia Proletaria, venendo assassinato cinque giorni prima del voto. 

Quasi sicuramente è stata una coincidenza, fatto sta che induce a riflettere che in una sola notte, fra Roma e la Sicilia, si siano celebrati davvero "i funerali di uno Stato", assassinato in entrambi i casi da coloro che avevano tutto da perdere da un cambiamento effettivo, dunque volevano arrestarlo ad ogni costo e con qualunque mezzo. 

Probabilmente è stato un caso, ma non c'è dubbio che tanto la mafia quanto le Brigate Rosse che uccisero Moro perseguissero lo stesso obiettivo: mettere a tacere i costruttori di futuro, coloro che, prima e meglio degli altri, avevano intravisto il rischio dello sfascio del Paese, quanti non si rassegnavano alla barbarie di un'Italia in ginocchio, priva di dignità e assoggettata a interessi stranieri e, talvolta, inconfessabili, tanta era la loro sporcizia. 

Allo stesso modo, non c'è dubbio che Impastato aveva capito quanto fosse più potente l'arma della battuta e della denuncia scherzosa, condotta sempre con un riso amaro, rispetto all'attacco a testa bassa, e questo era lo sfregio che Cosa Nostra non poteva in alcun modo tollerare. 

Peppino era un ribelle, in lotta prima contro suo padre, notoriamente mafioso e non a caso, almeno per un periodo, sua unica ancora di salvezza, e successivamente contro i burattinai di un sistema asfissiante, corrotto, pericoloso e incivile che condannava e condanna tuttora buona parte nel nostro Paese alla miseria e all'arretratezza, impedendo lo sviluppo di un civismo maturo e quella sana partecipazione democratica che soli potrebbero costituire un'occasione di riscatto per la comunità nel suo insieme 

Tuttavia Peppino ha resistito: alla violenza di chi lo ha assassinato e all'infame accusa di essere morto mentre stava preparando un attentato dinamitardo, alle menzogne e a ogni genere di insulto, all'oblio e al tentativo di ucciderlo una seconda volta attraverso il sottile disprezzo dell'indifferenza. Peppino è sopravvissuto e non è diventato un santino, e qui il merito è senz'altro di sua madre Felicia e di suo fratello Giovanni, indomabili sia nella ricerca della verità che nel coraggio con cui ne hanno tenuto viva la memoria e rivendicato l'azione giornalistica e politica. 

Peppino è vivo in quanto il suo messaggio è universale, attuale oggi come ieri, anzi oggi più di ieri, costituendo un urlo contro l'infamia della prepotenza criminale e un desiderio di riscossa capace di coinvolgere ed aggregare una moltitudine di persone, a cominciare proprio dai più giovani. 

Mi piace pensare che quando Paolo Borsellino parlava della coscienza delle nuove generazioni, si riferisse proprio a lui e a quanti vi si ispiravano per portare avanti la propria azione di denuncia e di contrasto attivo non solo alla mafia in sé ma, più che mai, alla mafia che corrode ogni giorno la nostra esistenza, anche attraverso piccoli e, all'apparenza, insignificanti gesti. 

Era il 9 maggio 1978, Radio Aut non esiste più ma nessuno è riuscito a metterla a tacere. Per questo, per una volta, possiamo dire che una persona perbene ha vinto la sua battaglia e che ora quella battaglia, costante e doverosa, è anche la nostra.  

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