Attualità
La socialità 2.0
Malati di condivisione? Sì, ma per noi stessi
Per capire cosa ci spinge a postare gli affari nostri sui social network abbiamo fatto una chiacchierata - rigorosamente virtuale - con Maura Franchi, docente di Sociologia dei consumi e coautrice del libro “Scegliere nel tempo di Facebook. Come i social
Redazione | 13 novembre 2013
Quanto Facebook e gli altri social network influiscono e hanno influito sui nostri comportamenti?
Io credo tantissimo, soprattutto le tecnologie mobili hanno cambiato lo scenario. Siamo sempre connessi e gli altri sono sempre con noi. Ma lo studio è appena cominciato: ad esempio come cambia il modo con cui si costruiscono e si gestiscono le relazioni sentimentali, l’amicizia? Che cosa è l’intimità? I social network gettano luci e ombre su quelli che fino a poco tempo fa erano meccanismi riconosciuti.

Cosa si intende per oversharing?
La tendenza a condividere ogni cosa in modo un po’ ossessivo. È un atteggiamento che si ritrova anche negli adulti, e che interessa trasversalmente l’ampia platea dei social network. Pensiamo al piatto fotografato al ristorante, a un incidente, fino alle scene più intime.

È una tendenza anche italiana ormai?
Le tendenze sono globali. Nel tempo della comunicazione non ci sono differenze, semmai diverse declinazioni.

Da cosa dipende secondo lei quest’ansia di condivisione, soprattutto di cose private?
Affidiamo la nostra identità allo sguardo degli altri. Abbiamo bisogno di riconoscimento, siamo assetati di visibilità, ma non si può giudicare questo fatto solo come una spinta narcisistica. È il modo contemporaneo di vivere la socialità, e bisogna cominciare a rifletterci su.

Si può considerare una dipendenza?
Può esserlo quando ci fa superare confini del buon gusto e quando ci impedisce di vivere per condividere ciò che dovremmo vivere. Da una recente ricerca è emerso un dato che dà la misura di quanto sto dicendo: i più giovani rispondono a messaggi anche mentre fanno sesso.

Perché attraverso un post o una foto ci sembra naturale “informare” della nostra vita privata persone a cui nella vita reale non racconteremmo nulla?
Perché stiamo costruendo tracce della nostra biografia. Rispondiamo ad un bisogno nostro, lo facciamo per noi e non per gli altri.

Come i social network hanno cambiato il modo di condividere emotivamente un’esperienza - pensiamo ad esempio alla nascita di un figlio, il matrimonio, ecc.
È un discorso complesso: prima di tutto l’uso e il valore delle immagini sono aumentati in maniera esponenziale grazie al progresso della tecnologia. Tutti, con un semplice telefonino, possiamo fotografare quello che abbiamo davanti e condividerlo istantaneamente: lo facciamo tutti, chi più chi meno, tutti siamo parte del fenomeno. E poi l’immagine condivisa ci permette di sentire più vicine persone che non hanno modo di vivere fisicamente con noi una determinata esperienza. Infine, ha il suo peso anche il bisogno di riti, di una sorta di sanzione sociale di ciò che facciamo.

Quali i pericoli di una sovra-esposizione sui social, soprattutto per noi ragazzi?
Prima di tutto che in futuro potrebbe non piacerci ciò che ora mostriamo, poi il rischio che nuoccia alla nostra reputazione, visto che ora anche le imprese utilizzano i social per valutare i profili dei candidati. Poi dobbiamo pensare che quando condividiamo una foto, magari in casa, stiamo involontariamente coinvolgendo ad esempio familiari, amici, figli in situazioni che non necessariamente loro vorranno rendere pubbliche. È un problema e lo dimostra il fatto che comincia ad essere discusso anche dal diritto.

Come comportarsi allora?
Il modo di vivere la socialità è cambiato e non si può ignorare. Si può però applicare la regola del buon gusto, come nella vita.
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