Cinema e Teatro
L'ombra nera dei margini, Favolacce
Recensione del film proiettato nel corso della rassegna "L'ombra nera dei margini-Periferie urbane e sociali nel cinema"
Tommaso Di Pierro | 17 dicembre 2020

«Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata». Così l'anonima voce di un diario buttato nella spazzatura ci introduce alla storia narrata in Favolacce dai fratelli registi Damiano e Fabio D'Innocenzo. Una storia senza un c'era una volta, senza principi o principesse, eroi o cavalieri erranti, una favolaccia appunto che può essere vera o falsa allo stesso tempo, come una fiaba dei fratelli Grimm o un muto e raccapricciante squarcio di cronaca nera.

Lo scenario è quello della periferia straniante e quasi grottesca di Spinaceto, dove una serie di famiglie vive come in cattività la propria magra esistenza, fatta di pochi lussi e molteplici insoddisfazioni: dalla famiglia Placido, composta dai coniugi Bruno e Dalila e dai figli Dennis e Alessia, alla famiglia Rosa, composta dai genitori Pietro e Susanna e dalla loro figlia Viola, fino al duo dei Guerrini, Amelio (padre) e Geremia (figlio) e Vilma Tommasi, giovane ragazza in attesa di un figlio. Se è vero come scrisse Tolstoj in Anna Karenina che: «Tutte le famiglie felici sono simili tra loro; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» è vera anche la frase dello scrittore russo Nabokov in Ada o ardore, dove viene attuata una parodia della frase stessa: «Tutte le famiglie sono più o meno diverse tra loro; le famiglie infelici sono tutte più o meno uguali» e in effetti la componente dell'infelicità è il comun denominatore per tutte le famiglie di questo film: annoiate, votate al consumismo, prive di affetto e di dialogo, dove i genitori lasciano che i problemi dei figli gli scivolino addosso, anche quando soffrono, anche quando invocano una disperata richiesta di aiuto. La vita, tra bagni in piscina e cene senza fine, trascorre monotona, priva di prospettive per il futuro; e mentre i bambini perdono precocemente la loro infanzia - il temuto passaggio all'età adulta componente essenziale di tante favole -, si domandano se non esiste un'alternativa migliore alla loro esistenza vuota, vacua e priva di amore. Un'alternativa che certo colpirà il cuore dello spettatore più di un calcio in faccia.

Con uno sguardo perso, arcigno, cinico ma in primis disilluso, i fratelli D'Innocenzo ci tengono a far vedere ( e soprattutto a far sapere) che nulla è più freddo del quotidiano. Che la crudeltà del mondo, descritta, raccontata attraverso il diario di un bambino - una narrazione anonima come tutte le favole -, è senza tempo, possibile in ogni luogo, in ogni contesto, così come questa fiaba nera dove il male è sempre in agguato e non c'è lieto fine. I bambini, veri protagoniste delle favole ed eterno destinatario a cui saranno sempre dedicate, voltano la pagina della loro esistenza, chiudendo un capitolo della loro vita per intraprenderne un altro più funesto, divenendo i protagonisti di una favola che non è più una favola, ma una favolaccia zozza e sporca che racchiude una dolorosa verità. Con una particolare e spiccata sensibilità alla realtà dell'oggi, a quell'ambiente delle periferie urbane che già era stato esaminato nel loro film d'esordio La terra dell'abbastanza, i fratelli D'Innocenzo si dimostrano attenti scrutatori del contemporaneo, del margine oscuro della società attuale da cui sono pronti a scaturire orrori nascosti in ogni momento, ma non così nascosti da non parlare al nostro presente di bambini, figli, genitori, interrogandoci sulle nostre responsabilità, non solo sociali, ma anche affettive di comuni esseri umani. 

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