Interviste
Interregno. Bauman ci spiega perché ci sentiamo così incerti
Lettera ai Facebookiani
A metà tra la comunità reale e la rete, la generazione 2.0 sa cosa non vuole, ma non ha i mezzi per costruire ciò che desidera: per trovare un equilibrio ci vuole consapevolezza
Redazione | 20 settembre 2011
Una valanga di informazioni
Quando ero giovane il principale problema sembrava quello di non avere abbastanza informazioni, mentre ora c’è stato un ribaltamento, e quest'esponenziale eccesso informativo crea una densa cortina che l’occhio non riesce a penetrare. Non è un caso se le parole “cortina, sipario” ricorrono frequentemente nella letteratura moderna, rappresentando un telo - non incolore, ma che brulica di immagini - che ti impedisce di sapere cosa si muove sullo schermo. In definitiva siamo ignoranti, non sappiamo cosa sta succedendo e men che meno cosa accadrà. Si calcola che in una sola uscita domenicale del New York Times ci siano più informazioni di
quante potesse conoscerne un uomo colto del Rinascimento nel corso di tutta la sua vita. Questo, però, anziché aiutarci, crea una sorta di nebbia impenetrabile. Vediamo solo ad un metro e mezzo di distanza, ma non riusciamo ad andare oltre. Più cerchiamo informazioni e meno sappiamo che cosa dobbiamo fare.

La società vischiosa
Il problema tuttavia non sta solo nell’ignoranza, questa è una condizione preliminare. Il vero guaio è l’impotenza. Con il termine “impotenza” intendo descrivere la situazione in cui l’individuo che vuole cambiare qualcosa, che vuole rompere con un pugno il muro che lo imprigiona, si trova ad affondarlo nella bambagia. L’impotenza è l’impossibilità di realizzare ciò che si vuole, perché il muro assorbe la nostra azione senza modificarsi. Ho parlato di modernità liquida: liquida però non vuol dire leggera. Così come il mercurio, che è liquido, ha un peso specifico maggiore dell’alluminio, allo stesso modo il termine “liquida” non deve lasciarci supporre che la nostra società sia leggera, eterea. La nostra società è pesante, vischiosa, ci si affonda dentro ed è questo che intendo quando parlo di ignoranza ed impotenza. In queste condizioni, immersi nell’ignoranza e nell’impotenza, non si può che giungere ad umiliazione e frustrazione: se non riesco a cambiare le cose, allora è colpa mia – si pensa – sono io che non sono all’altezza, che non sono adeguato.

La rivoluzione passa per la rete?
È vero che negli ultimi tempi certi fenomeni come quello della “primavera araba” sembravano aver restituito alle persone una certa forza di influenza, di capacità d'azione sul mondo. Ma, a distanza di pochi mesi, che ne è di quelle rivolte? Che sappiamo dell’estate araba, dell’autunno arabo? I social network hanno dimostrato una grande capacità e rapidità di collegamento, sono autostrade dell’informazione ed hanno il potere di riunire simultaneamente grandi masse di persone, ma non sappiamo ancora se questo tipo di mobilitazione sarà in grado di materializzare effettivamente strutture alternative a quelle che sono state abbattute. Probabilmente questi nuovi mezzi consentono alle persone di rifiutare ciò che non vogliono, ma per il momento non sembrano fornire loro la possibilità di realizzare ciò a cui aspirano.

In bilico fra gli opposti
Il momento è di grande incertezza, viviamo in quello che Tito Livio chiamava interregno. Le norme, le regole del passato non vigono più, ma non ne sono ancora state create di nuove. Romolo regnò su Roma per trentotto anni, la vita media di un individuo di quei tempi. Chi era nato sotto il primo re di Roma non aveva avuto modo di sperimentare altre fonti di autorità diverse dalla sua e infatti, alla sua morte, si dovette aspettare un anno perché la successione si definisse. Il punto fermo del passato era improvvisamente sparito, ed ancora non era stato stabilito un nuovo ordine. È un po’ quello che ci sta succedendo adesso. Ci troviamo in bilico tra concetti contrapposti, siamo circondati da binomi: abbiamo bisogno di partecipare alla vita sociale della nostra comunità, ma al tempo stesso necessitiamo di autonomia; desideriamo affermare la nostra identità, ma lo facciamo chiedendo agli altri riconoscimento; aspiriamo alla più totale libertà, ma chiediamo che il suo conseguimento sia garantito dalla sicurezza. Anche l’affermarsi dei social network è una dimostrazione di questo vivere dicotomico: ci serviamo di mezzi virtuali per alimentare le nostre speranze di recuperare ciò che ci manca nella vita reale. Aggiungiamo amici alle nostre liste per allungarle all’infinito, poi li cancelliamo a piacimento. La responsabilità del singolo, in questo contesto, è allora quella di trovare un giusto equilibrio tra le diadi – e in questo è supportato dalla comunità.

Un “poke” non basta
La rete non può sostituire la comunità reale. La prima è il luogo della libertà, la seconda della sicurezza. Sulla comunità si può contare come su un vero amico: è più affidabile. Ma anche più vincolante, ti controlla. La rete è libera, ma serve soprattutto per i momenti di svago. E per uscire dalle relazioni, in fondo, basta spingere il tasto delete. Però mi pare che siamo tutti d’accordo sul fatto che tra abbracciare qualcuno e “pokarlo” ci sia una certa differenza. Quello che internet non può ancora offrire ai suoi utenti è la sensazione di intimità. I media hanno chiuso l’era delle società operaie in cui la realtà era definita dall’appartenenza a comunità, e hanno spalancato quella delle reti, spesso confuse con le comunità. Una comunità è tale finché gli appartenenti non sono consapevoli di esserlo, mentre gli “adepti” di Facebook sono ben consci appunto di esser membri di una “Rete”. L’importante è non dimenticarsene.
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