Interviste
Europa in Jeans
Il sogno federale? Si può e si deve
Il prof. Adriano Giovannelli, docente di Diritto costituzionale comparato all’Università di Genova, spiega luci e ombre delle istituzioni europee. Credendo fermamente al progetto dei fondatori
Fabio Canessa | 26 giugno 2014
A leggere il suo curriculum c’è da diventar matti. Incarichi universitari, ruoli istituzionali, collaborazioni
con università e studiosi del mondo intero, incontri con capi di Stato e personalità di spicco globale. Adriano Giovannelli, oggi, tiene la sua cattedra di Diritto costituzionale e comparato al corso di Scienze Politiche all’Università di Genova, la stessa dove si è laureato e ha mosso i primi passi della carriera accademica. Ha raccolto il nostro invito a parlare di Europa, lui che già in piccolo è una fusione di culture: meridionale di padre e genovese di madre, «sughi rossi contro sughi verdi», scherza. Ci scappa la frase fatta, lo chiamiamo “eminenza grigia”. Lui, arguto, lo prende come un complimento verso la barba non più fulva come un tempo.

FIGLI DELL’ERASMUS O EUROSCETTICI?
Classe 1947, professore negli anni tumultuosi del terrorismo politico, Giovannelli di giovani studenti ne ha
conosciuti tanti, compresi quelli che ha accompagnato verso l’Erasmus quando ancora non si sapeva bene cosa fosse. Loro il problema dell’integrazione non se lo pongono nemmeno: «I ragazzi di oggi imparano prima “download” che le parole del linguaggio comune. Viviamo in un mondo in cui un portoghese e uno svedese in aeroporto parlano Globish, quella forma di inglese semplificato con cui si comunica dappertutto. Il processo di integrazione sarà velocissimo. Gli studenti Erasmus vivono con felicità quest’esperienza, che tra l’altro ha già prodotto migliaia di figli». Ma le elezioni del 25 maggio ci hanno ricordato che l’Unione ha varie questioni aperte.

UN’INTEGRAZIONE OSTACOLATA DALL’INTERNO
Il prof ne è sicuro: l’Europa vincerà la sfida. «Non c’è alternativa – spiega – in un mondo globalizzato e multipolare, se sei un microbo non sopravvivi. Mi hanno citato esempi di realtà che campano separate: Iran,
Turchia e Venezuela. Mi vengono i brividi. Un anno e mezzo dopo i brividi aumentano, pensando ai modelli alternativi». Eppure ci sarà qualcosa che non va, se il sogno europeo sembra ciclicamente svanito tra dolorosi pizzicotti. «Certo, le criticità sono molte. Quando si è aperta la via all’integrazione europea, si pensava a uno Stato federale che si occupasse dei grandi temi, la politica estera, la difesa. Negli anni ’50 il progetto cade per certi mugugni in Francia. Quando riprendono il discorso ripartono dall’economia: l’idea è che l’integrazione economica favorisca quella politica. Una politica dei piccoli passi, dell’integrazione graduale. Sembrava funzionare perché la gente trovava risultati positivi, beni a costi ragionevoli, una società più stabile, una classe politica più seria di quella nazionale, specialmente in Italia, dove la politica era ancora paesana. Quando la crisi ha fatto emergere i problemi accanto ai benefici, si sono visti i costi dell’integrazione». Per non parlare degli ostacoli interni: «L’Inghilterra non ha mai voluto l’integrazione, diventando un elemento di freno e blocco. In Francia temevano l’arrivo in massa degli idraulici polacchi. Hanno scoperto che non ce n’era nemmeno uno». È così che sono nati i «compromessi pragmatici realizzati dalle élite, con scarsa partecipazione dei popoli. Come quello tra chi non voleva la Germania unita e chi invece la sosteneva. Perché non fosse un pericolo, hanno dovuto porre una condizione: che rinunciassero al loro marco superpotente in favore dell’euro».

LA MONETA SENZA STATO
Già, l’euro. Una vera pietra dello scandalo, che Giovannelli riprende con una metafora edilizia: «L’edificio
dell’Europa, costruito pezzo a pezzo con tanta fatica, è in realtà appesantito da un’enorme guglia: l’euro.
Questa guglia ha una struttura minimalista, semplice, perché c’erano tante opposizioni. Hanno costruito l’euro ma non hanno creato strutture abbastanza solide per reggerlo. Una moneta senza Stato, una scommessa rischiosa. Con l’ondata di crisi, hanno aggiunto contrafforti barocchi per stabilizzarla. Non è che abbiano voluto un’Europa fatta male, ma quello era il materiale a disposizione, il massimo possibile viste le resistenze». Ma allora potremo mai parlare di Stati Uniti d’Europa? Giovannelli non nasconde il suo europeismo convinto. «A una costituzione europea non ci siamo ancora arrivati, è una battaglia dolorosa. Anzitutto dico basta ai trattati intergovernativi che spalmano una patina opaca sulla legittimità dei progetti europei. La crisi ha accentuato il ricorso a questi strumenti, indebolendo le istituzioni comunitarie e impoverendo la democrazia interna dei Paesi membri». Sì, perché «a negoziare i trattati ci vanno i capi dei governi. Quando tornano zittiscono il Parlamento, le parti sociali, i ministri stessi».

RIDISEGNARE LE ISTITUZIONI
Sì, quindi, a un Parlamento europeo con più poteri, democratico e rappresentativo. Sì «a una Commissione che rappresenti il vero organo di governo dell’UE: oggi è solo un embrione. Il Consiglio europeo deve diventare una sorta di seconda camera federale sul modello del Bundesrat tedesco. E ovviamente, ci vogliono dei veri partiti europei». Un’Europa federale, però, non può funzionare senza il denaro, la struttura solida che permette di tenere in piedi l’intero edificio: «Ci vuole un budget centrale minimo ma adeguato. In Europa corrisponde allo 0,9% del PIL: serve a fare le sagre paesane, non a completare l’integrazione europea. In ogni federazione è almeno il 15%. Se hai un bilancio ridicolo, che non serve nemmeno per interventi omeopatici, l’Europa non la puoi costruire».

UN PROBLEMA DI INFORMAZIONE…
L’Italia è stata un Paese europeista, oggi forse un po’ meno: «Diciamo che l’Italia, in pratica, si è rivelata un allievo pigro. Ha sempre cercato di combinare l’omogeneità europea coi propri interessi. I governi, così, scendono a compromessi e ritardano ad hoc l’applicazione di certe norme». E poi c’è chi mugugna contro l’Europa degli standard agro-alimentari. O contro l’Europa dei burocrati. «Possiamo dirlo? Vi hanno raccontato delle balle. Su molti temi l’Italia è indietro, anche sui diritti dell’uomo. Quante storie hanno messo in giro: l’Europa si occupa della misura delle banane, degli zucchini, dei pomodori. È vero che la politica agricola ha un peso eccessivo, perché esiste il problema di salvaguardare le economie agricole dei Paesi dell’Est. Macché
eurocrati e funzionari. Sono meno loro degli amministrativi in una capitale come Roma. Circola un’informazione sbagliata sull’Europa».

…E DI GESTIONE
Qualche colpa, però, ce l’ha anche chi ci governa. «Serve una classe politica decente, che non apra spazio a marchette sui fondi europei. Il decentramento non ha favorito un buon uso dei fondi strutturali, che sono stati spesi in modo ridicolo. Lasciando perdere lo scandalo dei concerti, ad esempio i fondi per la formazione sono usati per mantenere i docenti e non per trovare posti di lavoro e formare chi lavora. La colpa è dei singoli soggetti, nazionali ma più spesso regionali».

LA MIA PAROLA PER L’EUROPA
#solidarietà. «Dobbiamo averla tutti, perché le crisi possono colpire tutti. Non quella della Merkel, che ne dà un’interpretazione disciplinare, come fossimo tutti soldatini in riga. Io intendo la solidarietà come partecipazione congiunta, spartizione dei pesi. Una solidarietà mediterranea».
Sughi rossi e verdi, per intenderci.
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