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La ricetta della scuola felice
La ricetta della scuola felice
Avete mai pensato che spesso le incomprensioni con gli insegnanti dipendano da una mancanza di reale comunicazione? Spesso bisognerebbe gestire in maniera creativa i conflitti: prova a spiegarci come Marianella Sclavi, autrice insieme a Gabriella Giornell
Germano La Monaca | 11 marzo 2016

Uno degli aspetti chiave del libro è la misurata distanza da una trattazione di teoria pedagogica pura, con i numerosissimi esempi tratti dalla realtà scolastica. Può parlarci di queste esperienze negli istituti tecnici e dei risultati degli esperimenti fatti in queste classi?

Nelle scuole spesso i ragazzi non vengono educati alla gestione e alla risoluzione in maniera collettiva dei conflitti. A poco a poco però, attraverso alcuni stimoli, si è visto come la possibilità di risolvere i conflitti in maniera creativa diventi nei ragazzi un sapere in grado di migliorare la propria situazione anche fuori dalla scuola, come in famiglia o con gli amici.

La valorizzazione del momento educativo avviene calcolando diversi fattori come l’ascolto, l’emotività, la condivisione e la consapevolezza, nella prospettiva del Life long learning. Perché è importante questa prospettiva?  

Il “Life long learning” è una concezione diversa dell’apprendere e della formazione. Se nell’Ottocento si imparava un mestiere e quelle conoscenze rimanevano stabili e ascritte a quell’unico ambito, nella prospettiva del Life Long Learning, al continuo aggiornamento delle proprie conoscenze si unisce anche lo sviluppo di nuove capacità, come il lavorare in gruppo, fare ricerche più esaustive in vista di progetti che richiedono il mettersi in relazione con gente in giro per il mondo. 

Nel libro si afferma: “In certi studenti il lato relazionale – emozionale è talmente predominante che non viene preso in considerazione il risultato scolastico”: sembra che la scuola sia il luogo in cui gli studenti siano più inconsciamente legati alla costruzione delle proprie amicizie e della propria identità. A questo proposito parla di una “educazione sentimentale”, che sia anche un veicolo per quella “culturale”. Come può avvenire questa particolare educazione?

L’obiettivo è un’autoconsapevolezza emozionale. Imparare a dialogare con le emozioni è un salto abbastanza grosso, dato che si parte da un “paradigma del controllo” di alcune emozioni cattive perché nocive all’apprendimento. Gli insegnanti stessi sono chiamati a giudicare il comportamento degli studenti in base ad un criterio di giusto o sbagliato, senza tenere conto delle diverse sfumature che si nascondono dietro ai comportamenti e al punto di vista del ragazzo. 

“L’apprendere come apprendere” e l’indirizzamento alla creazione di un metodo di studio sono i prodotti di una collaborazione tra gli stessi studenti, ovvero la mediazione creativa. Di cosa si tratta?

Nell’apprendimento scolastico non viene dato il giusto valore al lavoro di gruppo, che dà l’opportunità ai ragazzi di imparare l’uno dall’altro, sviluppando la capacità di mediare “creativamente” le capacità peculiari di ognuno, per capire meglio se stessi e gli altri, gestendo eventualmente i conflitti, concepiti poi come occasioni per imparare.

Lei afferma che le differenze fra dibattito e dialogo a livello interpersonale, sociale, istituzionale e politico, sono considerati dagli studenti “saperi extra scolastici”. Quali sono i mezzi per renderli più partecipi e consapevoli di ciò che hanno attorno?

Bisogna educare al confronto tra le varie percezioni dei problemi. Crescere ed imparare devono diventare i fini stessi della dimensione collettiva che può essere un’assemblea, un luogo dove ogni individuo interagisce e apprende. Il rispetto del momento collettivo, che trasforma la presa di posizione e il confronto di ogni elemento del gruppo in crescita per tutti, è il primo elemento che la scuola ha il dovere di trasmettere.

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