Attualità
Crisi economica. Le cause e le possibili soluzioni
Siamo tutti in debito
Lo Stato ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, ma siamo noi giovani a pagare per le grandi spese di chi ci ha preceduto e per chi non ha fatto il suo dovere di contribuente
Francesco Mesiano, 17 anni | 2 dicembre 2011
Diciassette anni e già un sacco di debiti. E di che mi lamento se mio cugino che è nato solo tre mesi fa, ne ha già anche lui più o meno 35mila sulle sue piccole spalle? Certo che in linea di principio i debiti non li abbiamo contratti noi. Diciamo che li abbiamo ereditati da un Paese e dai suoi abitanti, che si sono impegnati negli ultimi decenni a foraggiare il Leviatano dei giorni nostri, il famigerato debito pubblico. Ma cos’è questo mostro a troppe teste? È il debito che lo Stato ha contratto verso altri soggetti, individui, imprese, banche o Stati esteri (per le definizioni si veda il box alla pagina seguente); è esploso tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Novanta. Il fenomeno è analizzato anche da una ricerca condotta da Barbara Biasi, Michele Pellizzari e Rachele Poggi, pubblicata recentemente sul sito economico Lavoce.info, secondo la quale i soldi presi in prestito sono stati destinati principalmente a pensioni e impiego pubblico. Ad averne beneficiato sono stati soprattutto i nati tra il 1940 e il 1950, che hanno usufruito ad esempio delle baby pensioni (c’è chi si mise a casa ad un’età alla quale qualcuno oggi non ha ancora trovato un lavoro, tanto meno stabile). A rimetterci sono essenzialmente i nati tra il 1965 e il 1975. E i loro figli, naturalmente. In sostanza sui discendenti gravano più tasse e tagli agli Enti pubblici, che si traducono in meno fondi per scuola, sanità e trasporti, giusto per fare qualche esempio. A tutto ciò sarà difficile fare fronte, dal momento che i favolosi ragazzi degli anni Quaranta hanno a disposizione una percentuale molto più alta sia del patrimonio mobiliare che immobiliare rispetto a chi è venuto dopo. Insomma, c’è ben poco da scherzare: l’economia è allo sbando. Chi dice si poteva fare di più, chi sostiene che si doveva fare meglio. Chi dice tassiamo di più i ricchi e chi proprio non ve vuole sapere… la ricetta giusta non è facile da trovare e su questo, almeno su questo, possiamo essere tutti d’accordo. Spulciando nell’archivio di Zai.net (n.1-2008) mi sono però imbattuto in un articolo di qualche anno fa dedicato all’Ardep, associazione per la riduzione del debito pubblico. Qualcuno ci aveva ironizzato su, ma chissà come ci troveremmo oggi se l’idea di Luciano Corradini, professore emerito di pedagogia presso l’Università Roma 3, che dell’associazione è stato l’ideatore, fosse stata seguita. In sostanza il professore aveva iniziato ad essere un “volontario fiscale”, si era autotassato per contribuire, anche solo simbolicamente, alla riduzione del nostro debito. Se altri avessero fatto come lui, magari ora non ci troveremmo in questa situazione: «Diedi il 10% del mio stipendio per un anno e mezzo – ha spiegato –. Oggi sono prima di tutto i politici a dover dare il buon esempio: sono sdegnato per il comportamento dell’intera classe politica che continua a spendere, gravando su una situazione ormai penosa». Per la cronaca, le indennità dei nostri parlamentari sono le più alte d’Europa. I senatori della Repubblica hanno appena compiuto l’onorevole gesto di togliersi almeno i vitalizi; ma non da subito – non sia mai! – dalla prossima legislatura. «Dopo i politici, però, veniamo tutti noi – prosegue Corradini – con l’associazione ora mi occupo di volontariato associativo proprio allo scopo di promuovere la cittadinanza attiva». “Lo Stato siamo noi”, scriveva Piero Calamandrei, uno dei padri della nostra Costituzione (chi lo volesse, può approfondire con la lettura dell’omonimo libro appena uscito per le edizioni Chiarelettere, e contenente gli scritti più importanti del giurista fiorentino). «La vita delle persone si basa su un equilibrio fra dare e avere – continua il professore – fra consapevolezza dei propri diritti e responsabilità dei propri doveri. Se viene meno questo, tutto viene messo in discussione». Insomma, ognuno dovrebbe fare la propria parte. Non si sentano esclusi i giovani: perché «sono sì vittime dell’atteggiamento di chi li ha preceduti, ma devono considerarsi anche artefici di ciò che accade. Ricordiamoci sempre che la libertà che non riusciamo a darci è superiore a quella che ci tolgono». Intanto qualcun altro si è dato da fare: Giuliano Melani è un imprenditore di Pistoia che più o meno un mese fa ha occupato a sue spese una pagina del Corriere della sera per invitare a comprarci tutti il debito pubblico, evitando che cresca a dismisura, tramite l’acquisto di titoli di Stato. «Mi hanno seguito in molti, fortunatamente – ci ha raccontato orgoglioso – Di risorse economiche ce ne sono ancora, tutti dobbiamo fare qualcosa», perché, si legge sul suo appello, ai debiti abbiamo contribuito tutti, “quando non abbiamo pagato le giuste imposte, riempiendoci di medicinali che abbiamo regolarmente buttato, circolando gratis sui mezzi pubblici, eleggendo persone inadeguate...”. Sì, vabbè, ma noi ragazzi che tasse non paghiamo ancora e che Bot e Btp non li possiamo comprare? «Potete studiare, molti non lo fanno, sprecando una grande risorsa: la scuola, il riscaldamento dell’edificio, tutte le spese e naturalmente gli insegnanti. È ancora più importante che comprare Btp». E magari chiedendo lo scontrino quando non ce lo fanno. Pare che ogni contribuente italiano (nel senso di chi davvero contribuisce, pagando le tasse) si accolli l’evasione di chi non le paga per 4.440 euro. Dalle dichiarazioni risulta che ci sia solo un 3% di italiani con un reddito oltre i 150mila euro. E se in Francia viene recuperato il 90% delle evasioni, in Italia ci fermiamo al 10% (se volete continuare a farvi del male, potete leggere al riguardo Autopsia della politica italiana di Cristiano Lucchi e Gianni Sinni, edizioni Nuovi mondi). Proprio partendo dal ruolo che avrebbe l’evasione fiscale nell’ammontare del debito pubblico, un gruppo di cittadini ha dato vita ad un’associazione, che prende il nome da una norma della Costituzione, l’articolo 53. Il suddetto articolo recita così: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Secondo l’associazione, come ci ha spiegato il suo portavoce, Claudio Mazzoccoli, questa disposizione è stata tradita. Per quanto riguarda la capacità contributive, a leggere la relazione dell’on. Salvatore Scoca, che prese parte all’Assemblea costituente, il cittadino, prima di corrispondere la sua quota allo Stato deve poter soddisfare i bisogni elementari di vita suoi e della sua famiglia. Ma la quasi totalità delle imposte viene versata da lavoratori dipendenti e da pensionati, trattenute direttamente alla fonte, in busta paga. Solo che, non potendo dedurre le spese, se non in minima parte, essi finiscono per pagare tasse sulla base di somme che non hanno più a disposizione. E così accade che in molti facciano fatica ad arrivare a fine mese e che alla fatidica domanda: “vuole la fattura o le facciamo uno sconto?”, venga spesso scelta la via meno onesta. Diverso sarebbe se ciascun contribuente fosse dotato di una carta elettronica, in grado di registrare le spese fatte e il codice fiscale del rispettivo fornitore, perché così tutto l’incassato verrebbe registrato nelle banche dati del fisco. Insomma, nessuno potrebbe fare più il “nero”, né dichiarare redditi forfetari, basati su calcoli induttivi, come oggi prevede la legge, con la conseguenza che magari alcune fasce di autonomi si indebitano per pagare le tasse e altri, invece, evadono ingenti somme, se non vengono “pizzicati” dagli accertamenti. Dal reddito di ciascun cittadino si dovrebbero poter dedurre le spese necessarie per le esigenze proprie e del proprio nucleo familiare secondo scaglioni (più alto è il reddito, più bassa la percentuale). E più onesto sarà il cittadino (ovvero più utilizza gli strumenti di pagamento elettronici e si fa rilasciare le ricevute), più avrà vantaggi contributivi, fornendo nel contempo allo Stato gli elementi per calcolare i redditi di chi le somme le ha percepite. Chi volesse saperne di più può andare sul sito articolo53.blogspot.com.
Nell’attesa – più che altro nella speranza - che una soluzione si trovi, si può iniziare a sensibilizzare la popolazione. Una bella idea è venuta da un gruppo di ragazzi con la passione per la tecnologia. Si chiama Tassa.li ed è un’applicazione per iPhone (ora anche sul sito www.tassa.li). Se quando paghiamo qualcosa non ne riceviamo indietro scontrino o fattura, possiamo indicare il prezzo versato, tipologia e luogo dell’attività; comparirà il totale evaso. Non si fa ovviamente concorrenza alla Guardia di Finanza, tutti restano anonimi, anche gli evasori, ma è uno strumento comunque utile per la collettività.
Lo Stato siamo anche noi.

Parole da ricordare
Deficit a chi?
Deficit pubblico. Non è un insulto, ma l’ammontare della spesa pubblica non coperta dalle entrate dello Stato. Ciò vuol dire che queste ultime (le entrate, appunto) sono state, in un dato periodo, minori delle uscite.

Debito pubblico. Ora come ora più che altro è il “nemico” pubblico. È il debito che lo Stato ha contratto verso altri: individui, imprese, banche, Paesi stranieri, che hanno acquistato obbligazioni o titoli di Stato.

Titoli di stato. Non sono film di una rassegna sull’Unità d’Italia. Sono i Btp (Buoni del tesoro poliennali) che il nostro Stato mette sul mercato per avere in cambio liquidità. Si promette a chi li acquista che al termine di un dato periodo riceverà indietro il capitale investito con gli interessi. Più uno Stato è affidabile da un punto di vista economico, minori saranno gli interessi sui suoi titoli. Questo perché il mercato punta sul rischio: investire ora su un Paese che potrebbe fallire vuol dire avere interessi più alti alla scadenza delle obbligazioni. Ma se lo Stato fallisce si rischia di perdere tutto il capitale investito.

Spread. La “parolaccia” più pronunciata dai Tg. In inglese “spread” significa “larghezza”, in senso figurato è anche forbice, divario. Indica infatti la differenza di rendimento tra i Btp italiani e i Bund tedeschi, presi come riferimento in quanto ritenuti i più affidabili in zona euro. Se lo spread si alza vuol dire che il valore dei nostri titoli di Stato è in discesa rispetto ai corrispettivi tedeschi.
Commenti