Interviste
L'attivista Martina Cera crea cultura attraverso i social
Si occupa di migrazione, femminismo, pena di morte e tanti altri temi. E ne parla (anche) tramite Instagram
Giulia Tardio | 15 ottobre 2018

In che cosa consiste, di preciso, il tuo lavoro di attivista?

Come attivista mi occupo di creare contenuti accessibili sulle tematiche dei diritti umani. Sono questioni che magari spaventano per la loro complessità, ma io trovo che sia fondamentale che sempre più persone siano in grado di farsi domande sul gap salariale tra uomini e donne, su cosa spinge un eritreo a lasciare il proprio Paese o sul perché sia ancora necessario combattere contro la tortura o la pena di morte. Il problema è che gli strumenti per comprendere cosa succede sono spesso un po’ fuori portata, ma i diritti umani e la politica internazionale non possono riguardare solo gli studenti universitari o le signore che vanno alle conferenze dell’ISPI o magari chi può permettersi di prendere due ore di permesso dal lavoro per andare in manifestazione. Riguardano tutti, ed è importante che a leggerne sia anche lo studente del liceo che a ricreazione magari si guarda una story su Instagram e si chiede che cosa stia succedendo in Libia.

 

Qual è stato il tuo percorso di studi? Pensi che abbia contribuito ad avvicinarti a quegli ideali per cui oggi ti batti con determinazione?

Ho frequentato il liceo Sociopsicopedagogico all’Istituto Gobetti di Genova, una scuola che mi ha dato tantissimo e che è stata fondamentale nello sviluppo degli interessi. Il liceo ha contribuito nel senso che sono stata molto fortunata ad incontrare professori che mi hanno spronata a seguire i miei interessi. Ricordo con grande affetto la professoressa Stefania Gattone, che insegnava Psicologia e Pedagogia: una persona estremamente brillante, una di quelle prof che pretendono il 100%, ma allo stesso tempo sono capaci di ispirarti. Al terzo anno ci assegnò una tesina di Pedagogia, non so più su quale argomento, ma io portai Margaret Mead, una grandissima antropologa statunitense. Ricordo di aver pensato: “Ecco, io voglio essere esattamente come lei”. Dopo il diploma ho scelto di studiare Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali, con un indirizzo in Cooperazione, perché davvero non avrei potuto fare altro. La mia scelta è stata la somma di tutte le esperienze che nel 2014 mi hanno portata a prendere la decisione di trasferirmi a Milano per frequentare l’università: il liceo, certo, ma anche gli scout e il volontariato hanno contribuito. Poi l’università ha fatto il resto, dandomi le competenze necessarie per trattare gli argomenti di cui mi occupo e aiutandomi a trovare quelli più affini alla mia sensibilità.

 

Sui social fai spesso riferimento all’associazione Bossy, che nasce per sensibilizzare la gente alla salvaguardia dei diritti umani e del concetto di parità. Che ruolo ha svolto di preciso questa associazione nel percorso che ti ha portato ad esporti in prima persona come attivista? 

Bossy mi ha aiutata proprio a trovare il coraggio di espormi. Vedere queste ragazze poco più grandi di me, come Irene Facheris (ragazzi, invitatela alle assemblee di istituto), esporsi per creare cultura e avvicinare persone diversissime al femminismo è stato molto importante per la mia formazione. Per non parlare di tutte le cose che ho imparato guardando i “Parità in pillole” su youtube o leggendo i loro articoli sul sito di Bossy.

 

Negli ultimi anni il tema migranti è al centro delle controversie europee. Cosa pensi del modo in cui l’Italia ha affrontato e affronta la questione? In cosa ritieni, invece, che possa migliorare?

L’Italia purtroppo sta prendendo la strada indicata dal premier ungherese Viktor Orbàn, uno che vorrebbe trasformare l’Europa in una fortezza. È dal 1991, con l’arrivo dei primi profughi dai Balcani, che si affrontano le migrazioni gridando all’emergenza, senza un nessun vero progetto a lungo termine. Non sto dicendo che l’Italia non abbia fatto nulla, perché ad esempio con l’operazione “Mare Nostrum” il lavoro è stato immenso, ma che avrebbe potuto fare meglio, soprattutto negli ultimi due anni. Come? Riformando un sistema di accoglienza complicato e costoso, creando corridoi umanitari sicuri per chi scappa dalla guerra, dando a chi migra per motivi economici la possibilità di arrivare qui legalmente. Non è un problema solo italiano, anzi, è un problema europeo. Non siamo uniti su questa tematica perché ne abbiamo fatto un argomento da prima pagina dei giornali, spettacolarizzando il tema e criminalizzando chi come le ONG salva le vite di queste persone, per questo adesso parlarne fa paura. Con la paura nessuno ha mai cambiato nulla in meglio. Ancora peggio è parlare di migrazioni per distogliere l’attenzione della gente dai problemi reali, quelli economici ad esempio. C’era un bell’articolo su The Vision un po’ di tempo fa: “629 migranti non entreranno in Italia, ma la tua vita fa comunque schifo”.  Rendere il Mediterraneo un cimitero non ha migliorato la qualità della vita di nessun italiano, è un dato di fatto.

 

Tra le varie cose, ti definisci anche una femminista, sostieni cioè la parità di ogni diritto tra i due sessi. Cosa pensi della condizione attuale della donna in Italia? Ritieni che sotto qualche aspetto ci siano ancora delle discriminazioni?

Le discriminazioni ci sono, anche se non di legge, di fatto. È discriminazione tutto quello che ci impedisce di essere pienamente noi stesse, di ambire ai traguardi più alti. Nel 2017 siamo finiti in 82esima posizione su 144 Paesi analizzati dal Global Gender Gap Index, in Europa hanno fatto peggio solo Cipro e Malta. In Italia le donne hanno aspettative di vita più basse, lavorano di meno rispetto alle cittadine degli altri Paesi UE e hanno guadagni meno elevati rispetto ai loro colleghi uomini, inoltre sono poco presenti nella vita politica. Non è confortante, ma secondo il World Economic Forum occorrerà un altro secolo per chiudere il divario globale di genere. Il lavoro da fare, quindi, è immenso ed è tutto sulle nostre spalle. È una bella sfida, no?

 

 Negli ultimi anni i social network sono diventati i principali strumenti di condivisione idee, notizie ed informazioni, “ma alla fine dei conti bisogna scendere in strada e andare in piazza”. Quali sono, a tuo avviso, i vantaggi ma al tempo stesso i limiti di questo mezzo di comunicazione?

I vantaggi sono che, attraverso i social, le persone hanno accesso a moltissimi contenuti. Oggi abbiamo tutto a portata di telefono, basta connettersi. È molto più semplice organizzarsi, fare rete, trovare persone che la pensano come noi e che magari abitano dall’altra parte della penisola. Una cosa impensabile, fino a vent’anni fa. C’è un altro lato della medaglia, però, ed è la pigrizia che ci porta a pensare che con un post “impegnato” si possa sistemare ogni problema, o che siccome nella mia bolla di contatti tutti la pensano come me allora tutto il mondo la pensa così. È un problema perché si polarizza lo scontro: siamo “noi” contro “loro”. L’altro è uno scemo, è cattivo, quindi mi sento più legittimato ad insultarlo. Non lo farei, se lo avessi davanti in carne ed ossa.

Alla fine, anche se nel 2018 è impensabile non stare sui social, è importante esserci fisicamente. Come ha detto Irene nell’intervista che hai citato: una piazza gremita fa molto più effetto di una raccolta firme online.

 

Nonostante la tua giovane età, ti sei già data molto da fare per far valere le tue idee. Quali sono i tuoi progetti futuri?

Nel breve termine conto di laurearmi e di iniziare la magistrale. Vorrei anche continuare il mio viaggio: “Un’altra rotta”, il progetto che mi ha portata a viaggiare da Nord a Sud per parlare con operatori, attivisti e volontari che si occupano di accoglienza per migranti in Italia, mi ha dato tantissimo. Non voglio abbandonarlo, ma dovrò adattarlo ai tempi del rientro dalle vacanze.

Poi il sogno è sempre lo stesso: voglio occuparmi di diritti umani, sporcarmi le mani, stare sul campo. Senza smettere di raccontare quello che vedo per avvicinare quante più persone possibile a queste tematiche che, alla fine, riguardano tutti noi.

 

Sappiamo tutti che il futuro dell'umanità è nelle mani dei giovani. Quale messaggio ti sentiresti di dare ai ragazzi di oggi?

Non credete a chi vi dice che è tutto finito, che “il treno è già passato” e che siete una generazione senza futuro. Hanno solo paura, voi dovete essere speranza. Avete degli strumenti incredibili per creare il futuro, il resto è tutto dentro di voi e in quello che decidete di fare per cambiare le cose. Sono passati quasi cent’anni, eppure i “compiti” di Antonio Gramsci rimangono sempre attuali: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».

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