"Come una rana d'inverno"
"Come una rana d'inverno"
Non è un viaggio di relax, non ci sono onde, né passeggiate in montagna, o grattacieli. Vi propongo un itinerario diverso e un po’ impegnativo, dove le emozioni, anche negative, sono protagoniste
Francesca Nicita | 27 giugno 2016

Caro diario,
questa è l’esperienza più significativa che io abbia mia fatto, ho ripercorso infatti una delle pagine più buie della storia europea visitando tre tra i più famosi campi di concentramento e sterminio in epoca nazista: Dachau in Germania, Terezin in Repubblica Ceca e Mauthausen in Austria.

Quando sono arrivata nella città di Dachau ammetto di essere rimasta delusa: non avevo mai visitato una città che ospitava un campo di concentramento, il colore delle case e quell’odore di vita che emanava tutta la campagna circostante non combaciava con tutti gli orrori dei quali avevo letto nei miei anni di studio. Dachau tuttavia è sempre stato diverso dagli altri campi di concentramento: era il campo “modello”, aveva il dovere di rendere ignorante la popolazione europea su quello che succedeva realmente. Al suo interno c’erano campi da calcio, un bar e un negozio di alimentari che tuttavia non furono mai utilizzati. Ho percorso un viale con accanto delle vecchie rotaie e mentre camminavo sentivo sempre di più i miei passi farsi pesanti al solo pensiero di quante persone avessero percorso quel viale senza poi fare ritorno. Alla fine del viale sulla destra c’è un cancello, non particolarmente grande, e tra le sbarre di questo cancello si legge chiaramente la scritta “Arbeit Macht Frei”. Di fronte a me c’era il piazzale dell’appello e se si va oltre con lo sguardo si possono vedere i muri e i fili spinati che ancora delimitano l’area. Durante il percorso si potevano sentire delle testimonianze, la più significativa era quella di un italiano che diceva più o meno così: “Quando arrivammo al campo noi italiani, i francesi erano già là da qualche mese, furono loro a metterci in guardia, ci dissero infatti che c’era un’infermeria, ma che non ci si doveva mai andare per nessun motivo, perché lì infatti erano soliti fare esperimenti sugli uomini, dunque non dovevamo mostrarci né malati né troppo sani e attivi, altrimenti ci avrebbero portato là e non ne saremo mai più usciti”.

Pochi giorni dopo ho visitato Terezin. Complice il cielo nuvoloso, questa città mi ha dato subito l’impressione di essere molto triste, con strade deserte e una desolata piazza spoglia. Qui c’è un bellissimo museo, il posto dove vivevano i bambini tra i 10 e i 15 anni. La prima cosa che colpisce sono i disegni di cui il museo è pieno: la storia vuole che una giovane maestra deportata insieme a tutti i suoi giovani alunni, una volta capita la loro sorte, abbia chiesto loro di disegnare cosa provassero. Uno tra i disegni più belli è quello di una bambina probabilmente molto piccola: una farfalla che vola al di fuori del campo di concentramento. Entrata nella fortezza minore noto la stessa frase, Arbeit Macht Frei, dipinta su un arco arancione. Procedevo in silenzio osservando attentamente le ricostruzioni delle atrocità che i prigionieri erano costretti a subire.

L’ultimo posto che ho visto è stato Mauthausen, il più grande campo di concentramento in Austria ed il primo ad essere stato costruito fuori dalla Germania; con lo scopo iniziale di detenzione dei nemici politici di Hitler, era poi divenuto teatro delle torture delle SS e di morte a causa delle misere condizioni dei suoi prigionieri. Appena arrivata mi sono accorta dell’assenza della solita scritta, superata quella che sembra una fortezza si vede il piazzale d’appello circondato da alte mura e con torri di guardia ad ogni angolo. Il campo di Mauthausen è un luogo che mi ha resa particolarmente triste. Le baracche sono vuote, ma si può sentire, visitando questo luogo, il peso delle molte vite che sono state stroncate nella maggior parte dei casi dai lavori forzati. Tra le testimonianze che ho potuto sentire un italiano ricordava l’orrore che aveva vissuto con parole simili a queste: “C’erano dei premi per le SS, tipo il nostro impiegato del mese: accumulavano punteggio per ogni prigioniero ucciso, così a volte prendevano qualche internato a caso e gli sparavano con la scusa che quello avesse intenzione di scappare”.

Questi sono luoghi che non dovrebbero esistere, ma allo stesso tempo sono estremamente necessari per ricordare e per impedire che si ripetano queste pagine di storia. Come turista mi sono sentita molto a disagio e fotografare mi è sembrato anche imbarazzante alcune volte, però l’emozione che mi ha trasmesso questo viaggio, caro diario, è qualcosa che mi ha fatto crescere, per questo continuerò a consigliare anche a i miei amici di farlo.

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