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Coming out di Demi Lovato: cosa significa essere non-binary?
Il coming out di Demi Lovato come persona non binaria e la scelta di cambiare i propri pronomi in "they/them" ha portato ancora una volta la questione dell’identità di genere all'attenzione del pubblico, scatenando un enorme clamore. Ma cosa significa essere non binari e usare pronomi diversi da "lui/lei"?
Marta Tinaglia | 27 maggio 2021

Nella giornata del 19 Maggio Demi Lovato, cantante statunitense ed ex star di Disney Channel, pubblica un video sui suoi social network annunciando di essere non-binary e di usare i pronomi they/them.  "Durante l’anno scorso ho meditato molto e tramite questo lavoro di riflessione ho capito di identificarmi come non binary. Detto ciò cambierò ufficialmente i miei pronomi con they/them. Sento che rappresentino meglio la fluidità della mia espressione di genere e permettono di sentirmi la versione più autentica e veritiera della persona che so di essere e che sto ancora esplorando” afferma.

Cosa sono i pronomi “they/them”?

Sono proprio i pronomi di Demi Lovato ad essere stati la causa della confusione e di scherno soprattutto nei media italiani. Ciò nasce da un malinteso linguistico: “they/them” non hanno solo la funzione di terza persona plurale in inglese ma ricoprono anche il ruolo di pronome di terza singolare neutro. Il dizionario di Oxford fa risalire la loro forma singolare al 1375, dove appare nel romanzo medievale di ”William and the Werewolf”. Nell’accezione moderna si usano solitamente per riferirsi ad una persona anomala, di cui non si sa il genere. Recentemente Oxford ha aggiunto la voce “non-binary” al loro vocabolario. In italiano non esiste un pronome corrispondente. Tradurre “they/them” nella loro forma singolare in “loro”, pertanto non è del tutto corretto.

Discussioni sull’identità di genere

Negli ultimi anni la questione dell’identità di genere ha ricevuto una quantità di attenzioni senza precedenti sia da parte dei media sia da parte della comunità scientifica grazie a molti fattori quali: l’aumento degli invii alle cliniche specializzate in terapie volte ad affermare l’identità di genere delle persone transgender, l’aumento di tali strutture, la maggiore consapevolezza da parte della comunità trans delle diverse opzioni e procedure terapeutiche disponibili, e soprattutto la depatologizzazione da parte del mondo psichiatrico di tale identità di genere e, in campo sociale, la maggiore presenza di persone transgender nei media.

Cosa significa “transgender”?

La terminologia nel campo dell’identità di genere è in costante evoluzione. “Transgender” è un termine generico utilizzato per descrivere chi si identifica in un genere diverso da quello assegnato dalla nascita. Il suo contrario è “cisgender”. Per comprendere questo argomento bisogna precisare le differenze sostanziali tra sesso e genere e tra identità di genere e espressione di genere. Onde evitare confusione è necessario anche escludere l’orientamento sessuale che, al contrario della percezione comune, non rientra in questo contesto.

Il sesso di appartenenza è determinato dalle caratteristiche genetiche, ormonali e anatomiche (cromosomi sessuali, gonadi, organi riproduttivi interni e genitali esterni) che definiscono l’appartenenza al sesso maschile, femminile o a una condizione intersessuale, costituendo, quindi, un modello bimodale. Il termine “genere” si riferisce, invece, agli atteggiamenti, ai sentimenti e ai comportamenti che una determinata cultura associa al sesso di una persona. Il comportamento di un individuo può essere compatibile o incompatibile con le aspettative sociali e culturali della comunità di appartenenza. L'identità di genere è il senso di appartenenza di una persona ad un genere con cui essa si identifica, ovvero come una persona si percepisce. L’espressione di genere si riferisce al modo in cui una persona si comporta al fine di comunicare il proprio genere all’interno della propria cultura di appartenenza (abbigliamento, modo di apparire, modelli di comunicazione e interessi). Essa non sempre si allinea con i ruoli di genere socialmente e culturalmente prescritti e accettati, ma ciò non comporta necessariamente l’identificazione ad un altro genere.

Il termine “transessuale” risulta per molti versi obsoleto poichè enfatizza il concetto di sesso rispetto all’esperienza psicologica di genere, ma può venire usato da persone che decidono di affrontare la “transizione”, che consiste nel ricevere trattamenti ormonali e/o chirurgici e che mira all’obiettivo di “curare” la disforia di genere (DG), un modello medico-psichiatrico in uso anche in Italia. Pertanto è importante sottolineare che non tutte le persone trans (binarie o non binarie) si sottopongono a tale processo, o lo fanno solo in parte, per svariati motivi. Infatti l’uso del DG è ampiamente criticato come un modello di “gatekeeping” (filtro, ostacolo): esso sembrerebbe perpetuare forme di “normatività” per quanto riguarda l’assistenza clinica delle persone transgender, cercando di imporre una visione specifica della loro vita, che può essere definita “transnormativa”.

 La “transnormatività” si riferisce alle narrazioni dominanti che determinano ciò che significa essere transgender, enfatizzando un insieme particolare e ristretto di cliché a cui ci si aspetta che tutte le persone transgender aderiscano. Alcuni di questi stereotipi sono, per esempio, legati alla narrativa del nascere nel corpo sbagliato, oppure la credenza che tutte le persone transgender richiedano cure mediche o vogliano diventare del sesso opposto.

Le suddette critiche hanno portato negli ultimi anni allo sviluppo di modelli alternativi. Tra questi ritroviamo il “Modello del Consenso Informato”, che si sta sviluppando e che viene applicato in alcune parti degli Stati Uniti, che consente ai clienti transgender di accedere a trattamenti ormonali e interventi chirurgici senza la necessità di sottoporsi a una valutazione della loro salute mentale o di ottenere un “invio” da parte di uno specialista in salute mentale. In sintesi, questo approccio all’assistenza sanitaria transgender cerca di superare la “medicalizzazione dell’identità di genere” e promuove una deviazione dall’uso della diagnosi di DG come prerequisito per accedere ai servizi di transizione. In tale modello la persona occupa un posto centrale nel percorso di transizione e ne viene rispettata l’autonomia e il diritto di autodeterminazione. L’assunto alla base del modello è che i medici lavoreranno per facilitare le decisioni dei pazienti sul corso della propria vita e percorso di cura.

Cosa significa essere non binari?

La maggior parte di persone transgender che non affrontano il periodo di transizione (si intende quella medica, contrapposta a quella sociale) sono proprio i non binari.

Non-binary o genderqueer è un termine generico per indicare tutte le identità rivelabili fuori dal binarismo di genere. Le persone non binarie possono identificarsi in due o più generi ( bigendertrigender ), senza genere (agender), possono avere un'identità di genere “fluida” (genderfluid), si riconoscono in alcuni precetti dei generi binari, ma non totalmente (demigirl, demiboy), percepiscono loro stessi con un genere completamente diverso da quelli “tradizionali”.

Data la complessità delle identità non binarie è facile per chi è fuori da questa realtà fraintendere alcune loro caratteristiche. Gli errori più comuni sono raggruppare tutte le persone non binarie in un terzo genere con uguale esperienza e presumere che tutte abbiano un aspetto androgino.

I pronomi

I pronomi più usati dalla comunità non-binary sono “they/them” nella loro forma singolare, oppure, soprattutto recentemente, vengono adottati dei loro “composti” come “she/they” e “he/they”. In questi casi solitamente bisogna alternarne l’uso. Detto ciò è importante precisare che i pronomi non equivalgono necessariamente al genere: una persona non binaria può avere pronomi femminili o maschili senza invalidare la sua identità. Altri, soprattutto i neurodivergenti non binari, preferiscono dei neopronomi che meglio descrivono la loro esperienza personale. I più comuni sono “xe/xem/xyr”e “ze/hir/hirs”.

Come riferirsi a una persona non binaria in italiano?

Tutti i casi sopracitati valgono per la lingua inglese, allora come possiamo rivolgerci alle persone non binarie italiane? Qui la situazione si complica considerando che l’italiano, come sappiamo, è una lingua “genderizzata”: non abbiamo un pronome neutro, i sostantivi appartengono a due generi e tutto nella frase deve essere accordato secondo l’appartenenza in uno o dell’altro. Nella forma scritta basta sostituire la vocale finale con l'asterisco (ad esempio: "un* ragazz* simpatic*"). Una soluzione affine è lo schwa, la vocale neutra che aiuta ad avere un linguaggio più inclusivo. Nel parlato una soluzione semplice è usare espressioni neutre, come "una persona simpatica". Ci sono dei casi però in cui è impossibile evitare di usare un pronome: l'unica soluzione in italiano è quella di tradurre il they inglese con il "loro", avendo cura di coniugare tutti i verbi al plurale. Come spiega Lovato nel video, per chi parla può essere un piccolo sforzo, ma per chi ascolta significa tutto: vuol dire che la propria identità viene riconosciuta e apprezzata.

 

Foto | Facebook: Demi Lovato

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