Cinema e Teatro
“Fortezza”, il deserto del carcere in scena a Civitavecchia
Intervista a Ludovica Andò, regista con Emiliano Aiello di un film speciale
Giulia Mattera, 16 anni e Matteo Zaccheo, 19 anni | 9 gennaio 2020

Ludovica Andò è una regista ed educatrice che da anni lavora nelle carceri e che recentemente ha realizzato con Emiliano Aiello il film Fortezza presentato al museo Maxxi all’interno della sezione Festa per il sociale e per l’ambiente del Festival del Cinema di Roma. 

Fortezza prende spunto dal libro di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, un capolavoro assoluto, forse uno dei libri più belli del secolo scorso. Molto in breve Il deserto dei Tartari è la storia di un ufficiale, Giovanni Drovok, che viene spedito in questa fortezza. Il suo piano iniziale è quello di rimanere poco tempo ma, vittima degli eventi, rimane bloccato in un incubo quasi kafkiano in cui non riesce più ad uscire dalla fortezza. Sicuramente il romanzo di Buzzati è molto complesso e tocca moltissimi nuclei tematici. 

 

Qual è il tema di Fortezza o meglio il racconto che fate in questo film?

In fondo è la stessa cosa. Il film è interamente girato all’interno della Casa di reclusione di Civitavecchia (Roma, ndr). Racconta di come un luogo possa agire sulla propria vita e sulla condizione delle persone. Il nostro obiettivo era quello di raccontare attraverso la metafora della fortezza di Buzzati, la reclusione come condizione umana e sociale. Non volevamo solto mostrarla come reclusione fisica, ma portare a riflettere su ciò che comporta vivere in uno spazio ridotto. 

 

Cosa hanno provato i detenuti interpretando i personaggi?

Inizialmente, quando abbiamo portato i temi del Il deserto dei Tartari, eravamo molto curiosi, perché ovviamente si tratta di un testo non proprio facile, ci chiedevamo quindi che ritorno potesse avere. Quando abbiamo cominciato a parlare del tempo, dell’abitudine, della routine, della prospettiva del nemico che ci si deve costruire, loro hanno dato il loro feedback, molte delle parti del testo sono nate dalle loro osservazioni. 

È stato un processo di personalizzazione degli studi e dei testi scritti da loro. Tra i personaggi quindi non c’è più Giovanni Drovok ma ci sono tanti personaggi che prendono vita attraverso la trama del libro.

 

Sembra che il carcere oggi abbia un po’ perso la sua funzione di riabilitazione, in che modo si può tornare alle origini? 

Il carcere in cui abbiamo lavorato noi è una casa di reclusione “sperimentale”, c’è una particolare attenzione alla formazione lavorativa, all’avvicinamento alla famiglia, ai rapporti, al lavoro psicologico sulle persone. 

È chiaro che se non ci si pone il problema del dopo carcere si producono solo persone più arrabbiate che vivono un senso di frustrazione e di ingiustizia all’interno del carcere. 

Il tempo passato in carcere, ed è quello che proviamo anche a raccontare nel film, diventa un tempo utile se le persone hanno la possibilità di lavorare su sé stesse, sulle proprie ferite. 

Nella mia esperienza la maggior parte delle persone che incontro si portano dentro dei disturbi che non hanno saputo elaborare e che quindi portano anche a delle scelte difficili. 

 

Come possiamo vedere il film?

Ci stiamo lavorando, per fortuna ha avuto un ottimo successo la proiezione al Maxxi (Museo nazionale delle arti del XXI secolo, ndr), e quindi stiamo lavorando sulla possibilità di avere una distribuzione. 

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