Cinema e Teatro
Da una storia vera
"Teniamoci stretti i sogni"
Un film documentario e di formazione, una vicenda di cronaca e il racconto di una crescita personale. “La nostra quarantena” affronta lo spinoso tema dei diritti del lavoro dagli occhi di un ragazzo che si affaccia alla vita adulta
Redazione | 22 ottobre 2015

Cagliari. Molo sabaudo. Da più  di  un  anno  una nave  marocchina  è ormeggiata  e al suo  interno vivono 15 uomini, che  hanno  deliberatamente occupato l’imbarcazione per  una controversia con l’armatore. Comincia così l’ultimo film di Peter Marcias La  nostra  quarantena, con Francesca  Neri  e  Moisè Curia, e mette subito sul tavolo temi forti e quanto  mai attuali:  il lavoro, i diritti, l’integrazione e la solidarietà. La storia è un fatto di cronaca realmente  accaduto: nel maggio 2013 approda nel porto  di Cagliari Kenza, una nave  mercantile  marocchina. Rimarrà lì per  due  anni: l’equipaggio  della nave decide  di occuparla e vivere lì per protestare contro la mancata  retribuzione.

La situazione  si era sbloccata  con l’arrivo di un nuovo equipaggio  per permettere ai 15 marocchini di tornare in patria e liberarsi da quella prigionia auto  inflitta. La nave però nel frattempo  è stata  sequestrata, e solo lo scorso agosto è potuta  salpare per tornare in Marocco. «Siamo partiti da questa  vicenda – spiega  Moisè Curia, protagonista del film – andando a intervistare i lavoratori in sciopero: il film inizia quindi come un documentario». Curia interpreta  Salvatore,  uno  studente universitario che, spinto  dalla sua  professoressa – Francesca Neri – decide di fare una ricerca sui quindici marocchini che hanno  scelto di  “mettersi in quarantena”, costretti  a una mossa forte per sensibilizzare al loro problema. Dovranno aspettare  un  anno,  e  nel  frattempo sono senza  soldi  e  abbandonati  sulla  nave. Commenta il regista Peter Marcias: «Su quella nave la città di Cagliari sembra lontana,  il mondo solo un’ombra fugace. L’unica vera realtà è il tempo, un tempo  che scorre incessante ed impietoso, che assiste alla rappresentazione di un piccolo dramma che simboleggia il dramma universale del lavoro». Salvatore incontra  i prigionieri di questo tempo e rimane profondamente colpito dalle condizioni in cui vivono. Spiega Moisé: «A questi  uomini è tolta la dignità. Nessuno  si preoccupa  delle loro condizioni di sopravvivenza.  Questo scuote molto  Salvatore, che si chiede quale futuro ci sia per lui, se i diritti possono essere così barbaramente calpestati».

Dai  quindici marinai Salvatore impara l’importanza di far valere  i propri  diritti, e decide di dar loro voce con la sua  ricerca. “Siamo qui bloccati da otto  mesi e senza il nostro stipendio  – dice  uno  dei  lavoratori  – L’unica cosa  che pretendo da questo sciopero  è veder affermare i miei diritti. Non  abbiamo   scioperato per andare  contro il padrone,   ma  per  far sì che i nostri diritti  siano  rispettati”. La cronaca ci ha raccontato l’esito della vicenda; nel film questo incontro cambierà per sempre Salvatore, che finisce per immedesimarsi  in quei racconti, in quelle storie, in quei volti.

“Qual è il futuro di noi giovani?”, si chiede lo studente universitario  che vede davanti a sé l’età adulta e non sa se l’Italia sia il posto giusto per  realizzare  i propri sogni e per tutelarli.

«Per  preparare il  personaggio abbiamo intervistato anche  molti ragazzi mentre eravamo lì a Cagliari. Tutti avevano un sogno:  chi di sfondare  nella  musica,  chi nel  calcio, chi nella  ricerca scientifica.Tutti sapevano che  andando via forse sarebbero riusciti a realizzarlo prima. Ma  alcuni mi  dicevano: ‘se  tutti  vanno via, allora non  cambierà  mai nulla’. Io non ho ancora  una risposta. Sicuramente dobbiamo cambiare il nostro punto di vista e avere  una percezione realistica  di ciò che  ci circonda come finito, limitato. È come quando al mare guardi la luna sorgere: la vedi tante volte e la dai  per  scontata, non  pensando che invece  non  è per sempre.  Le circostanze all’improvviso cambiano, e magari ti  renndi  conto che  hai  tante  cose da fare e non ne hai  il tempo». Sognatore e introverso  come il personaggio che interpreta, Moisè Curia  spera che questo film  migliori  se  stesso  e  gli  altri, convinto che  attraverso il cinema si  possano ancora  veicolare messaggi  importanti. «Dopo La nostra  quarantena sarò al cinema  con  Abbraccialo per  me, un fim di Vittorio Sindoni che affronta  il delicato  tema della disabilità mentale. Non mi piace fare film tanto  per  farli, vorrei che avessero  sempre un obiettivo di sensibilizzazione e che in qualche  modo possano migliorare l’Italia». 

Un obiettivo che Curia condivide con  il regista Peter Marcias: «Con Peter ci siamo trovati subito in sintonia. Mi piace il suo modo di raccontare la realtà.  Durante le prove ci diceva sempre: ‘Non raccontate qualcosa che si può vedere in una fiction, ma qualcosa in cui la gente si rispecchi’. Lui in questo  è un grande maestro». Ma per “migliorare l’Italia”, come dice Moisè, serve un cambiamento culturale: «Ci ostiniamo a vivere di quello che abbiamo   perché  abbiamo paura del nuovo, del diverso. E allora accumuliamo  il certo, e ne vogliamo sempre di più. Ma la scatola per contenerlo  non cambia.  E se  è troppo piena tutto si rovescia  a terra e ne  pagheremo  le conseguenze. L’antidoto? Studiate sempre ragazzi: è l’unica cosa che nobilita  l’uomo. E poi, tenetevi stretti i sogni».

 

 

 

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