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La morte di Jordan Jeffrey Baby è il riflesso delle lacune strutturali
Redazione | 13 marzo 2024

Il trapper sembra essersi suicidato in cella a Pavia

Jordan Jeffrey, pseudonimo di Jordan Tinti, è stato trovato privo di vita ieri mattina nella sua cella del carcere di Pavia. Si è trattato verosimilmente di suicidio, ma ieri sera la sua famiglia ha invitato le testate a correggere la notizia, dal momento che la causa della morte ufficiale sarà dichiarato soltanto dopo l’autopsia. La conclusione di una morte autoinflitta è stata suggerita anche dal fatto che il ventiseienne aveva già tentato di togliersi la vita due volte nei diciassette mesi di detenzione che stava scontando.
Jordan era stato arrestato nel 2023 insieme a Traffik per rapina aggravata da odio razziale: l’anno precedente i due avevano attaccato un operaio nigeriano alla stazione di Carnate, minacciandolo e insultandolo con frasi razziste, oltre ad avergli sottratto la bicicletta. Erano stati condannati a 5 anni e 4 mesi Traffik e a 4 anni e 4 mesi Jordan.

Inizialmente Tinti aveva scontato la pena in una comunità terapeutica pavese per tre mesi ma, essendo stato sorpreso con un telefono e delle sigarette, la misura era stata sospesa dal Tribunale di Sorveglianza, destinandolo al carcere di Torre del Gallo.
Quando è stato trovato ieri, era tornato in cella solo da una decina di giorni. Gli avvocati e la famiglia insistono sul fatto che già in passato Tinti aveva denunciato gli abusi che subiva nel penitenziario pavese ma le proteste non avevano portato a niente di fatto. Cosa che non stupisce, considerando che da inizio anno sono stati più di venti i suicidi nelle carceri italiane.

L’intera vicenda di Jordan Tinti mostra le lacune strutturali alla base di una vita del genere: la mancanza di socializzazione all’alterità e al vivere comune da parte di scuola e altre istituzioni che porta a razzismo e illegalità; l’incapacità del sistema sanitario di sostenere la fragilità mentale; infine, la totale indifferenza nei confronti degli individui da rieducare alla vita in società da parte del sistema detentivo.
La famiglia ha dichiarato “i colpevoli, diretti o indiretti che siano, pagheranno”. Più che di pagare, ci si augura che l’Italia impari da questa vicenda per non ripetere ancora gli stessi, soliti, errori.

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