Scuola
La scuola secondo il professore del pop
Claudio Sottocornola ci parla dei suoi “Saggi Pop” e delle lezioni-concerto
Serena Mosso | 21 febbraio 2019

La scuola sa ancora educare alla bellezza? Lo abbiamo chiesto a Claudio Sottocornola, docente di Filosofia e Storia al Liceo Mascheroni di Bergamo, il “professore del pop” che racconta il Novecento attraverso la musica. Tra uno sguardo a Instagram e uno alla scena musicale contemporanea, ci ha presentato anche i suoi “Saggi Pop” (Marna, 2018), archivio storico della cultura popular contemporanea e viaggio transmediale fra musica, costume e società, anche attraverso le originali lezioni-concerto con gli studenti.

La sua è stata definita una “didattica della bellezza”. Cos’è la bellezza oggi? In che modo la scuola deve farsene carico e trasmetterla?

Purtroppo la scuola oggi, come ho avuto modo di spiegare in qualche mio saggio, tende a educare quasi esclusivamente l’intelletto, a scapito della sensibilità, che è invece plasmata da altre agenzie, vecchi e nuovi media le cui finalità, spesso esclusivamente economiche, lasciano ben poco a sperare. Posti così di fronte a un’estetica banale e consumistica, dai facili effetti speciali, e senza contrappesi educativi atti a suscitare consapevolezza critica, i giovani non hanno più la bussola per interpretare l’uomo e la sua condizione nel mondo con quella profondità che ha caratterizzato altre epoche e altre generazioni. Me ne accorgo quando, agli esami di maturità, qualche candidato viene invitato a leggere versi dei grandi poeti italiani del ’900, come Montale, Ungaretti o Saba, e si avverte nel suo approccio una totale assenza di emozione, perché manca uno sguardo abituato a quel rigore e a quella disciplina, non solo estetica ma anche etica, di cui la nostra società è ormai priva. Ecco perché mi ostino, a partire anche dal linguaggio del pop, a tentare la sfida di educare la sensibilità ma anche la volontà dei miei alunni a selezionare il meglio, a cercare l’energia là dove è più elevata e intensa. Se recuperiamo l’esperienza della bellezza, infatti, come voleva Platone, recuperiamo tutti gli altri valori che porta con sé, ed ogni cosa sembra finalmente trovare il suo posto e la sua giusta dimensione.

Come definirebbe Saggi Pop a uno studente che volesse avvicinarsi a questa lettura?

Perché i libri di Storia dovrebbero occuparsi solo di guerre, conflitti politici, andamenti economici internazionali (rispetto ai quali i singoli si sentono ininfluenti come formiche), e non invece anche della vita quotidiana delle masse, dell’emancipazione delle donne, dell’evoluzione della coscienza giovanile, del tempo libero e del costume in genere? Ecco, con Saggi Pop ho voluto proprio tentare questo: ricostruire la Storia, prevalentemente dal secondo Novecento ai giorni nostri, a partire dalla musica, dal cinema, dalla televisione, dal mondo della moda, della letteratura per ragazzi o delle controculture. Si tratta di diciotto saggi monografici, in precedenza pubblicati come dossier su varie riviste, cui seguono in appendice interviste che mi sono state rivolte sul rapporto, per esempio, fra la canzone italiana e il cibo, lo sport, gli animali, le vacanze estive e l’ambiente. Infine c’è la completa trascrizione di undici fra i percorsi base delle mie lezioni-concerto, che spaziano dai cantautori agli anni ’60, dall’immagine della donna alla ricerca del sacro nella canzone. Ma per dirla con De Gregori, il senso a tutto il percorso sta nella profonda convinzione che “la Storia siamo noi…”.

Si è detto che Saggi Pop dimostra “l’importanza dell’effimero”. Se si pensa all’attuale generazione giovanile, “effimero” fa venire subito in mente le storie di Instagram che spariscono dopo 24 ore. Da docente e studioso, cosa ne pensa dell’uso che oggi i giovani fanno del mondo social?

Personalmente ho usato il termine in modo molto metaforico, come sinonimo di “trasfigurante”, in quanto ciò che dà senso alla vita sembra essere la capacità simbolica dell’uomo per il quale un fiore, un anello, un sorriso significano molto più del dato materiale, ma aprono orizzonti nuovi di senso. E a maggior ragione ciò è vero per l’arte, la musica, la poesia e, in genere, tutta quanta la creatività umana in grado appunto di “trasfigurare” il reale. Esperienza fragile, che può essere disattesa da chi ignori tale labile ma speciale condizione che ci riscatta dalle tante frustrazioni del quotidiano. Purtroppo oggi invece prevale la tendenza a cercare senso alla vita attraverso il consumo – di merci o relazioni poco importa – restando confinati alla superficie delle cose e dei rapporti, convinti di dare significato e di plasmare il proprio vissuto attraverso un nuovo smartphone o un nuovo paio di jeans, ma anche moltiplicando i contatti o le “amicizie”, senza alimentare quel mondo interiore, quella capacità simbolica che – proprio come la bacchetta magica delle più belle fiabe tradizionali – è in grado di trasfigurare il mondo e di renderlo… “magico”.

Di Saggi Pop si è detto che tampona una lacuna importante della scuola italiana, ovvero “l’educazione all’ascolto e alla riflessione critica nei confronti dei prodotti culturali con i quali ci nutriamo ogni giorno”. In che modo la scuola aiuta (o non aiuta) gli studenti a diventare cittadini consapevoli? In che modo educa (o non educa) all’ascolto e alla riflessione critica?

Confucio sosteneva che nella vita fosse importante “studiare e meditare”, in quanto il solo studiare avrebbe portato a un atteggiamento passivo e ripetitivo, mentre il solo meditare avrebbe condotto a inquietudine o pazzia. Ecco, credo che la scuola di oggi privilegi l’acquisizione di tecniche o competenze, talvolta anche elevate, a scapito della riflessione critica e della formazione di un pensiero originale e personale. E questo differenzia l’attuale generazione, per esempio, dalla mia che, negli anni ’70, pur fra limiti ideologici e utopistici, si alimentava invece al sogno di un altro mondo possibile. Tale scollamento fra vita e scuola poi si evince anche dal fatto che il contemporaneo – e in particolare la cultura pop – trova scarso o nullo diritto di cittadinanza nell’attuale programmazione didattica. Sono ancora molti gli educatori che non vogliono guardare nel “cannocchiale del pop”, col risultato di non comprendere che la musica, il cinema, i media di oggi sono ciò per cui verremo ricordati, nel bene e nel male, dalle generazioni future, esattamente come noi parliamo del Cinquecento-Seicento attraverso i quadri del Caravaggio o La Gerusalemme del Tasso… Quindi resto convinto che costituisca una sorta di imperativo categorico “insegnare il pop” o, meglio, “insegnare a discernere”, come per ogni manifestazione culturale, qualità alta o bassa nel pop, attraverso una assunzione di consapevolezza dei suoi codici linguistici ed espressivi.

Sappiamo che tiene lezioni-concerto, destinate anche alle scuole. Come è nata l’idea di realizzarle? E in che modo la musica diventa funzionale alla divulgazione, nel suo metodo?

Il mio amore per la musica data dalla mia infanzia: ero bambino negli anni Sessanta che proponevano una colonna sonora – lo yé-yé, l’urlo, il beat, le influenze afroamericane, il flower power – di grande suggestione. Inoltre, fra gli anni Ottanta e Novanta, iniziando una attività giornalistica free lance, ebbi modo di intervistare alcuni fra i maggiori esponenti della canzone italiana, da Morandi a Paolo Conte, da Fossati a Branduardi, da Jannacci a Milva, da Ruggeri a Renga. Proprio questi incontri mi diedero l’energia per cambiare il mio punto di vista e passare “dall’altra parte del vetro”, affrontando io stesso, in sala di registrazione, lo studio di pezzi storici, da cui nacquero cd e dvd. Negli anni avevo spesso proposto ai miei studenti lezioni multimediali in proposito, mentre avevo già iniziato i miei corsi di Storia della canzone e dello spettacolo alla Terza Università di Bergamo, e quindi divenne  naturale proporre io stesso i brani che andavo commentando, avvalendomi di basi adeguate e, spesso, della collaborazione dei miei studenti che, in alcuni casi, cantano con me, realizzano splendide coreografie, suonano strumenti, leggono poesie o contribuiscono a riprese e scenografie. Negli ultimi anni tendo a concentrare in singoli eventi tale esperienza che però, grazie al Canale CLDclaudeproductions di You tube e anche al mio sito www.claudiosottocornola-claude.com, risultano poi integralmente reperibili in rete. Il senso di questo lungo percorso è ermeneutico: il termine sottolinea che il nostro rapporto con la realtà è di tipo interpretativo e, quindi, che una canzone ci suggerisce un modo di approcciarci al reale rispettoso della varietà e singolarità delle prospettive. Cantare è un modo di pensare inclusivo ed empatico e nelle mie lezioni-concerto vorrei educare a questo.

La musica è stata spesso un veicolo di protesta e rivoluzione, specie giovanile. Secondo lei oggi in Italia è ancora così? E tra 20 anni, quali “canzoni pop” in voga attualmente considererebbe rappresentative per descrivere l’oggi?

Come è noto, la musica ha rappresentato, per esempio negli anni Sessanta e Settanta, un momento di rottura, di cui le epiche immagini di Woodstock potrebbero costituire una delle più compiute narrazioni. Ovvio che negli anni essa ha subito un radicale processo di integrazione e omologazione, tanto da giungere oggi, nelle sue dimensioni più planetarie, a essere un vero e proprio prodotto “usa e getta”, cui corrisponde, per esempio, una cultura del videoclip, che spesso riproduce e reitera modelli sociali (e sessuali) dominanti. Le più famose pop star somigliano talvolta a replicanti che devono assumere ruoli come da cliché, dove la trasgressione è in realtà scontata e banale, il contesto consumistico, l’estetica piatta e prevedibile. Anche il rap (che ha spesso sostituito il rock come elemento controculturale) si presta ormai a strumentalizzazioni analoghe. È vero che la rete sembra permettere e favorire una produzione indie che dovrebbe garantire un maggior grado di libertà. Ma fino a quando? Si è ormai abbondantemente capito che se la rete è il nuovo serbatoio di ascolto e consumo della musica, i like, le visualizzazioni e le condivisioni, solo per dirne alcune, sono la nuova moneta del web, che determina, per esempio, il valore delle inserzioni pubblicitarie. E gli artisti si stanno già adeguando, con un conformismo di ritorno che spesso non ha nulla da invidiare a quello delle vecchie major discografiche.  La novità maggiore di questo nuovo millennio, a mio parere, sta però nel fatto che mentre il pop delle origini esaltava la rockstar come una sorta di eroe mitologico e romantico, oggi la rete tende a produrre musica che travalica il principio di personalità, attraverso il ricorso a una tecnologia e a una struttura produttiva reticolare, dove diventa ininfluente  il concetto di persona o di individuo, una musica elettronica declinata sia in senso eversivo che conservatore, ma di fatto potenzialmente distruttiva della soggettività. Ecco allora che, a mio parere, in futuro andremo a ricordare di questa nuova fase più grandi ambiti che singole esperienze (trap, hip-hop/ rap, pop, rock, musical, ecc.), un po’ come per il vecchio liscio. Insomma, non ci sarà una Let it be ma dei generi i cui volti resteranno a malapena delle silhouette. Io però continuo a battermi per la permanenza dell’interprete e, anche solo osservando lo scenario dei nuovi talenti, possiamo sperare nella sopravvivenza della specie (leggi Marco Mengoni, Ermal Meta, Enrico Nigiotti, Mahamood, Elodie, Giovanni Caccamo e tanti altri).

Secondo un certo tipo di media l’attuale generazione giovanile è considerata disinteressata, apatica, che si informa e legge poco. Sembrerebbe una generazione che produce poca cultura. Secondo lei è davvero così? L’attuale generazione si limita a “consumare” cultura prodotta da altri per lei, o sta dando un suo contributo come le generazioni giovanili del passato hanno cercato di fare?

Questa generazione produce cultura – e non potrebbe essere altrimenti – ma lo fa con caratteristiche proprie, diverse appunto da quelle della generazione precedente. Si è passati dalle grandi narrazioni della modernità – politiche, ideologiche, ma anche filosofiche e letterarie – alla dissoluzione della narrazione, almeno in senso forte, della postmodernità. Insomma, i grandi racconti delle generazioni precedenti tendevano a suggerire un senso complessivo dell’esistenza e della realtà, magari aspro e impegnativo da accettare, ma in qualche modo identificabile. La postmodernità al suo apogeo invece si muove nell’orizzonte della superficie delle cose – spesso identificate con le merci – e diffida di ogni tentativo di approfondimento, preferendo la navigazione a vista fra prospettive soggettive e  transitorie, ma soprattutto parziali, frammentarie e incomplete, ove semmai conta una sorta di ecumenico abbraccio, vista l’impossibilità di darsi una meta condivisa. Anche il soggetto si dissolve così e perde la sua struttura stabile e relazionale, a favore di una interattività casuale e aleatoria, imprevedibile e mutante. Ecco perché la cultura giovanile produce frammenti, flash, clip, slogan, gioco, goliardia, leggerezza, emozioni, possibilmente intense e stordenti, ma poco approfondimento, riflessione, argomentazione, interiorizzazione. Ed ecco perché, con le mie lezioni-concerto, che inanellano canzoni, riflessioni storico-critiche, disegni, poesie, io mi sforzo di suscitare domande, di aprire orizzonti, di provocare una assunzione di consapevolezza altrimenti compromessa da media pervasivi che tendono a renderci tutti un po’ acritici e passivi. Dalla cultura del surf, come qualcuno ha detto, occorre tornare ad investire nella cultura del sub, riscoprendo la bellezza della profondità, la dimensione dell’esistenza oggi in assoluto più minacciata di estinzione.

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