Attualità
È necessario restituire alla politica il ruolo che le spetta
Intervista con Raniero La Valle
Roberto Bertoni | 27 febbraio 2018

Non è mai semplice confrontarsi con personaggi come Raniero La Valle. Le sue intuizioni, le sue idee, il suo coraggio e la sua visione del mondo costituiscono, infatti, la frontiera più avanzata del cattolicesimo democratico: quello che si schierò dalla parte del NO al referendum abrogativo del divorzio, quello dei diritti sociali e anche di quelli civili, quello che non smetterà mai di difendere la Costituzione da ogni tentativo di manomissione, ispirandosi allo spirito dossettiano della Costituente e di Oliveto di Monteveglio. Non era semplice ma lui ha reso questo colloquio di una gradevolezza speciale, ponendosi nei nostri confronti con l’umiltà e la gentilezza tipica di chi ha molto da insegnare ma anche la curiosità e la passione di continuare ad imparare dagli altri.

Quanto vede attiva la sinistra cattolica e quali prospettive intravede per la medesima nel panorama politico italiano?

Non credo che, al momento, si possa parlare di una sinistra cattolica perché c’è una perdita di politicità di tutte le componenti del corpo sociale e mi sembra che nell’ambito di quello che una volta era il movimento cristiano manchi la percezione di quale sia il ruolo corretto dei cattolici in politica; al contrario, vedo sorgere dall’humus della fede religiosa e del cristianesimo delle grandi spinte profetiche e delle grandi proposte di innovazione radicale del modo di concepire il rapporto degli uomini col mondo, con la politica, con la storia, con la guerra e con la pace. Mi pare che tutto questo, al momento, sia riassunto in maniera straordinaria dal pontificato di papa Francesco.

Lei è stato un uomo politico tra i più conciliari, fra Dossetti, Giovanni XXIII e Paolo VI. Quanto ci sarebbe bisogno oggi di una sinistra sociale e quanti di questi valori sono interpretati, invece, da papa Francesco?

Papa Francesco è assolutamente al di là dei modelli che lei ha citato. È un Papa della modernità, ha capito perfettamente quale sia il cambiamento d’epoca che è in corso e ha indicato alcuni problemi che non sono neanche avvistati dalla politica di oggi. Quando pone il tema delle vite di scarto o quello di modelli economici insostenibili, quando elogia i movimenti popolari, le nuove forme di concepire la democrazia e la democrazia sostanziale, in cui il popolo veramente realizza la sua dignità, la sua vocazione e il suo compito, dimostra di essere oltre. Inarrivabile.

Un’altra delle sue battaglie è sempre stata quella in difesa della Costituzione: quanto è elevato il rischio che la Carta subisca nuovi attacchi?

Molto elevato, in quanto abbiamo una classe politica incapace di comprendere che non sono gli stravolgimenti della Costituzione improntati alla governabilità a risolvere i problemi di un Paese che non riesce a fare i conti con la modernità: basti pensare alla contraddizione, ahinoi evidente, fra la Costituzione del ’48 e i Trattati europei che abbiamo firmato acriticamente. Che senso ha aver accettato l’impossibilità di fornire aiuti di Stato alle aziende in difficoltà? Questo costituisce un attacco gravissimo ai princìpi solidali della nostra Carta e alla stessa dignità delle persone.

Questa classe politica non è in grado di ripensare radicalmente i rapporti politici a livello internazionale, non si preoccupa del rischio legato alle armi nucleari, non comprende come stiano cambiando i rapporti umani sulla Terra, non si prende cura di come le nuove tecnologie stiano sopprimendo milioni e milioni di posti di lavoro, non si sente una parola su come riorganizzarlo in base a nuovi parametri. Il lavoro è il fondamento della Repubblica: se viene meno, viene meno anche la costruzione democratica su cui ci siamo basati negli ultimi settant’anni.

La politica oggi è diventata mera gestione del potere. I tentativi di stravolgere la Costituzione, pertanto, ci saranno e non avranno nulla a che spartire con le esigenze effettive dei cittadini.

La Costituzione è figlia del Codice di Camaldoli: uno dei punti di riferimento, in ambito sociale ed economico, del cattolicesimo democratico che ha governato l’Italia a partire dal dopoguerra. Che posizione ha nei confronti del reddito di cittadinanza? Può servire, come all’epoca servirono le proposte di Camaldoli, per ricostruire un tessuto sociale oggettivamente sfibrato?

Il Codice di Camaldoli fa parte degli arcaismi dell’impegno dei cattolici in Italia, in quanto la Costituzione repubblicana, redatta insieme dalle grandi culture politiche dell’epoca, è di gran lunga superiore rispetto a quell’enunciazione di princìpi sociologici. La Costituzione repubblicana è stata un’apertura sul futuro molto importante e radicale. Adesso o si ritorna a capire quali sono le opzioni di fondo che furono scelte allora (la mano pubblica nell’economia, le partecipazioni statali, il controllo democratico della politica sull’economia e via elencando) o non se ne esce.

Quanto al reddito di cittadinanza, rappresenta una sorta di paracadute sociale, dunque è una proposta positiva. Fatto sta che costituisce, al tempo stesso, la sconfitta di una politica che non riesce a risolvere il problema di fondo di ridare il lavoro alle persone, restituendo loro, tramite esso, dignità, la possibilità di seguire la propria vocazione, la possibilità di costruirsi un futuro e, ovviamente, la possibilità di sopravvivere e provvedere alle necessità della vita. Se la politica facesse questo, il reddito di cittadinanza diventerebbe residuale. In caso contrario, si andrà avanti con bonus, mance, sussidi, regalie varie e si correrà il rischio di una rottura democratica con amari precedenti.

Lei è stato parlamentare dal ’76 all’87: un periodo in cui si sono affermati molti diritti, sociali e civili. Qual era il segreto di quella classe dirigente in una stagione tutt’altro che semplice nella storia del nostro Paese?

Molto semplice: allora si faceva politica, si pensava al futuro del Paese, si cercava di aprire prospettive della democrazia, di realizzare una democrazia compiuta, si cambiavano le alleanze e i processi politici e si poneva al centro del dibattito pubblico la vita concreta delle persone. Era una politica creativa e non solo conservatrice del passato. Tuttavia, questa stagione si è conclusa con l’uccisione di Moro, quindi io solamente i primi due anni ho potuto pensare che, attraverso il lavoro parlamentare, si potessero cambiare i rapporti di forza nel Paese e anche a livello internazionale. Da quel momento in poi, abbiamo conosciuto unicamente regresso, fino all’aberrazione cui abbiamo assistito nella fase post’89, quando la classe dirigente occidentale ha creduto di aver vinto una guerra e ha trasformato l’Occidente medesimo in un grande mercato globale che ha finito con lo svilire e l’umiliare l’uomo. Chiediamoci dove abbiamo sbagliato in un passaggio epocale del Novecento, quando, con la fine della contrapposizione fra i blocchi, avremmo potuto costruire un mondo diverso, più giusto ed equilibrato e oggi invece ci troviamo a fare i conti con un mondo in crisi e, di fatto, in guerra con se stesso.

Cosa prevede e cosa auspica dopo il 4 marzo?

Queste elezioni sono chiamate a salvare il valore primario della democrazia. Mi auguro che ci sia una grande affluenza alle urne, che il popolo dimostri di avere ancora una passione civile viva, che non creda alla follia in base alla quale sono tutti uguali e che si pongano le premesse per far rinascere un qualche partito serio, in grado di affrontare e risolvere gli innumerevoli problemi di cui abbiamo discusso in quest’intervista.

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