Attualità
Verità e allarmismi
Il diavolo mangia carne
L’ultimo rapporto dell’OMS ha ufficializzato la pericolosità per la salute di alcune carni lavorate e della carne rossa. Fra il terrore dilagato fra i consumatori e l’indignazione dei produttori, cerchiamo di capire cosa significa esattamente
Loris Genetin | 26 novembre 2015

Alla fine di ottobre 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato e ufficializzato i risultati di alcuni studi condotti dall’IARC (International Agency for Research on Cancer) sulla cancerogenicità delle carni lavorate e delle carni rosse. Assai diverse sono state le reazioni registraTe dai media di chi, per un motivo o per l’altro, vive e lavora all’interno del mondo alimentare. Più omogenei sono stati invece lo stupore e la preoccupazione dei comuni consumatori che per alcuni giorni sono stati tormentati da numerosissimi dubbi. Cerchiamo di andare a fondo della questione. Cosa vuol dire che la carne lavorata è cancerogena? Fino a che punto possiamo rimanere tranquilli?

Per una comprensione adeguata è opportuno partire dalle definizioni di carne rossa e di carne lavorata. Per quanto riguarda la prima categoria intendiamo indicare tutti i tipi di carne composti da muscolo di mammifero, come la carne di manzo, vitello, maiale, agnello, montone, cavallo e capra. La carne lavorata, invece, include tutta la carne trasformata mediante salatura, stagionatura, fermentazione, affumicatura o altri processi con lo scopo di migliorarne il sapore e la conservazione. 

L’OMS all’interno del suo rapporto ha dichiarato che le carni lavorate sono state classificate come “cancerogene per l’uomo”, e sono quindi entrate a far parte del Gruppo 1 insieme ad altri circa 100 agenti definiti come “cancerogeni umani certi”. Per quanto riguarda le carni rosse, invece, i risultati ottenuti hanno determinato la “probabile cancerogenicità per l’uomo”, di conseguenza sono state inserite nel Gruppo 2A insieme ad altri 66 agenti circa. Gli esperti hanno inoltre concluso che ogni 50 grammi di carne lavorata mangiata ogni giorno il rischio di cancro del colon-retto aumenta del 18%. “Per un individuo, il rischio di sviluppare un cancro del colon-retto a causa del consumo di carne lavorata rimane minimo, ma il rischio cresce con l’aumento del consumo” afferma il Dr. Kurt Straif, capo del programma IARC. Il gruppo di lavoro dell’IARC ha tenuto in considerazione più di 800 studi che hanno verificato il legame tra più di una dozzina di tumori e il consumo di carni rosse e lavorate in Paesi differenti caratterizzati da diete diverse tra loro.

In che modo tutto questo influirà sulle nostre diete? L’allarmismo diffusosi nelle ultime settimane avrà delle conseguenze negative sull’economia della filiera alimentare? Se sì, in che modo? Per rispondere a tutte queste domande abbiamo chiesto l’aiuto di un esperto in materia, il Prof. Migliaccio, presidente della Società Nazionale di Scienza dell’Alimentazione, nonché medico nutrizionista, dietologo, specialista in gastroenterologia ed esperto in auxologia. 

«Nella diffusione di un Rapporto di questa importanza – spiega il professore – fondamentale è la comunicazione. Non possiamo certo affermare che in questo caso i media abbiano prestato molta attenzione per evitare equivoci o allarmismi inutili». Allarmismi che hanno spinto tanti di noi a considerare il passaggio a diete vegetariane o vegane. In realtà, il tipo di dieta che la maggioranza di noi segue, basato su un’alimentazione mediterranea, non comporta problematiche come quelle descritte dall’OMS per il semplice fatto che il nostro consumo annuo pro capite di carne è nettamente inferiore alla media dei principali Paesi consumatori. Ed è qui che entrano in gioco i media: l’informazione nella maggior parte dei casi è stata data senza fare distinzione fra i gruppi  gruppi maggiormente esposti ai rischi. Molto più preoccupanti sono ad esempio le conseguenze di abitudini come il fumo, l’alcool e l’inquinamento ambientale.

Un altro fattore che dovrebbe rassicurare noi italiani è la rigidità dei regolamenti alla base della produzione di carne sul nostro territorio. Come afferma il prof. Migliaccio, infatti, «nelle carni italiane è impossibile (reati a parte) trovare la presenza di ormoni o antibiotici che possano influire sulla qualità del prodotto». Proprio come conseguenza di quanto appena detto il “Made in Italy” potrebbe risentire di questo allarmismo in maniera del tutto ingiustificata. Studi di questo tipo, se comunicati nel modo scorretto, possono portare conseguenze economiche e contrazioni del mercato prive di significato, perché non supportate da una reale emergenza.  

E se c’è chi vede più vicina l’alternativa libera da proteine animali, dopo Expo e l’ok del Parlamento europeo potrebbero farsi strada anche sulle nostre tavole gli insetti. «Questo tipo di prodotti offre un grande quantitativo di proteine a basso costo e quindi potrebbero rappresentare una valida soluzione ad alcune problematiche presenti nel mondo attuale. Il vero problema di questi alimenti, però, è la digeribilità: noi non abbiamo infatti tutti gli enzimi per poterli digerire». Alla fine a poter essere maggiormente colpiti sono i fast food, che nelle carni lavorate hanno il loro core business. Ma anche su questo è bene essere cauti: «Le ben note catene di fast food in Italia dovrebbero essere escluse da questi uragani mediatici perché, utilizzando solo carni italiane, la qualità del prodotto non dovrebbe essere in discussione. Diverso è poi il consumo che se ne fa: se mangiamo tutti i giorni al fast food l’organismo ovviamente ne risente». 

No agli allarmismi dunque, ma è importante essere consapevoli della realtà: la correlazione fra un certo tipo di carni lavorate e lo sviluppo di patologie oncologiche è ora provato. Sta a noi agire di conseguenza in maniera prudente, informata e critica. 

Commenti