Cinema e Teatro
The ladies of “The (bling) ring”
Quando la realtà diventa reality
È tutto accessibile, a portata di click. Persino la casa di Paris Hilton. Basta cercare su Google maps. E poi è fatta. Entrare, frugare, giocare ai divi e uscire. E naturalmente scattare foto, postare, twittare, condividere...
Gaia Ravazzi | 24 ottobre 2013
Sofia Coppola forse ha ragione quando identifica la nostra generazione come quella dell’“oversharing”, dell’ossessione per il condividere ogni momento della propria routine quotidiana, dal mangiare (popolarissime sono ormai le foto di food addict e food lover su Instagram) alla palestra. Ci sono video di ogni attività: gente che corre, mangia, beve, dorme, persino ragazze che si passano il rasoio. Potremmo scovare anche le foto di un gruppo di adolescenti che si divertono ad intrufolarsi nelle case delle celebrità, come fanno sette ragazzi nella città degli angeli, in un’avventura che non ha nulla di angelico. Mark, Nicki (Emma Watson), Sam, Chloe, Rebecca, Emily e Laurie sono “the bling ring”, la banda di teenager che tra il 2008 e il 2009 fu responsabile di una serie di furti nelle ville delle celebrity più amate. Da Orlando Bloom a Rachel Bilson, passando per Lindsay Lohan e Paris Hilton senza lasciare alcuna traccia. Sofia Coppola, ispirata da un articolo di Nancy Jo Sales su “Variety” mette in scena le vicende realmente accadute della banda californiana. In cerca di cimeli, capi firmati, souvenir, senza la minima accortezza nei confronti di telecamere o misure di sicurezza. Entrare è facile: la chiave di Paris Hilton è sotto lo zerbino, alcune case (o macchine) nemmeno sono chiuse, sembra una passeggiata, un gioco. All’inizio per Mark, unico membro maschile della band e voce narrante, è solo un modo come un altro di integrarsi, di fare amicizia, ma viene ben presto risucchiato in questo vortice di lusso, droga e party selvaggi. Essere celebrity è uno stile di vita e non basta frequentare i loro stessi locali, bisogna essere come loro, bisogna essere loro. Il messaggio di Sofia Coppola è chiaro: questi ragazzi non sono degli eroi e nemmeno dei modelli per la nuova generazione, ma sono i figli della cultura pop e come tali condizionati da un’ossessione per condividere tutto con tutti.

SOFIA COPPOLA: TUTTA COLPA DEL POP

Lei come non te la aspetti. Una giovane donna minuta, timida, ma che non si scompone nemmeno dopo una raffica di critiche e domande incalzanti. Alla conferenza stampa romana, al termine della proiezione del suo The Bling Ring sottolinea: «La necessità di apparire indubbiamente deriva dalla cultura pop, è l’eredità di anni di reality prima in America e poi non solo, grazie alla globalizzazione». Il film racconta, lasciando trapelare le emozioni della regista, una realtà ormai attuale e diffusa. Più che coinvolti ci si sente sconvolti alla visione di questo film. Ed è questo che voleva ottenere Sofia Coppola: sdegno e un filo di orrore. «Ho cercato di raccontare la storia in modo che chi la guarda possa farlo dal punto di vista dei ragazzi, scoprendo quanto sia divertente e eccitante entrare nelle case delle celebrity, per poi assumere alla fine un’altra prospettiva e capire che loro si sono spinti troppo oltre». Il monito è evidente, non volto a giudicare, ma critico. Un’allerta, tanto che alle domande incalzanti dei giornalisti su un’eventuale soluzione la Coppola si trova spiazzata. «Il fenomeno cresce, il fascino, quasi l’ossessione per la cultura pop e i reality show va di pari passo. Sicuramente uno dei motivi per cui ho realizzato questo film è stato proprio per diffondere una maggior consapevolezza su questo tema. Fare un film del genere è un primo passo». Non c’è coinvolgimento per lo spettatore. «Volevo che il pubblico seguisse la loro storia ma anche che mantenesse un certo distacco emotivo e non sviluppasse un senso di intimità, anche perché nemmeno questi ragazzi hanno una grande intimità tra di loro, l’unica cosa che li lega è quest’ossessione per gli oggetti appartenuti alle star». Per portare sul grande schermo il ritratto di questi adolescenti c’è stato molto lavoro. «Innanzitutto ho parlato moltissimo con Nancy Jo Sales, la giornalista che aveva pubblicato l’articolo su “Variety” riguardo alla storia realmente accaduta, e con alcuni dei protagonisti. Poi c’è la figlia adolescente di una mia amica che mi ha aiutato per quanto riguarda i dialoghi, lo slang. Infine, ho letto tutte le registrazioni e le trascrizioni delle interviste della giornalista e della polizia».
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