Cinema e Teatro
"Recensione del film "The Wolf of Wall Street" (Martin Scorsese, 2013)
Alessio Semino | 12 febbraio 2014

Spesso si pensa che fare "buon cinema" sia diventata un'utopia. Guardando "The Wolf of Wall Street" non sembrerebbe così, e le motivazioni sono molteplici.
Il regista Martin Scorsese innanzitutto si butta di petto nel concitato, irriverente e immorale mondo della borsa americana, un lavoro che richiederebbe un grosso sforzo comunicativo visto il complicato campo in cui ci si muove. Lo spettatore viene coinvolto per tutta la durata del film dalla storia di un aspirante broker, Jordan Belfort, interpretato da Leonardo Di Caprio. Con una semplicità quasi disarmante, la pellicola illustra la realtà del mondo azionistico e di chi vi lavora, dietro le quinte: gente semplice che ha sfruttato l'occasione della vita, idolatrando un Jordan Belfort che appare come un gran motivatore, un benefattore, un "Mecenate col suo circolo di adepti".
Lo stesso protagonista parte dal basso, fondando la Stratton Oakmont, e con sè porta una mezza dozzina di fidati collaboratori, recuperati tra una birra e un crack in un pub di periferia. Col tempo la società si afferma, cominciano a circolare enormi somme di denaro, droghe e prostitute si annidano in tutti i momenti di libertà che tale genere di vita può concedere; poi, quando Belfort giunge ad insidiare il macrosistema di Wall Street, inizia ad essere tallonato dall'FBI, rappresentata da un osso duro come il commissario Patrick Denham (Kyle Chandler). L'epilogo non è certo scontato, solo alla fine la vicenda si dirime e si raggiunge davvero un equilibrio; ma la storia tra il Bene e il Male, tra FBI e azionisti mossi solo dal desiderio di denaro, non è un punto centrale della vicenda. Ciò che interessa, e ne trae giovamento la storia, è la scalata al successo di uno spigliato e ambizioso broker di periferia, uno di quelli "che ce l'hanno fatta".
In un tale marasma scenico, irriverenza e ambizione sono i fili conduttori di tutto quanto il film, che sembra destinato a non finire mai. Si rincorrono le stesse situazioni più e più volte, ma la loro finalità scenica è un po' la stessa che avrebbe potuto avere il coro nel teatro greco: dividere una rappresentazione in atti, per non renderla eccessivamente pesante.
Infatti il film è tutto fuorchè pesante, anche se la durata potrebbe trarre in inganno. Scorsese ottimizza molto bene i suoi 180 minuti e rende coinvolgente un film che avrebbe potuto facilmente non esserlo. Di Caprio gli facilita il lavoro, esprimendosi nell'ennesima buona riuscita di un suo personaggio; Matthew McConaughey, pur sulla scena per soli cinque minuti, prepara invece il suo trampolino di lancio verso la vincita del Golden Globe, datata 12 gennaio 2014. Gli attori che contornano la prima donna Di Caprio non sono da meno: alimentano la vicenda e dimostrano una grande poliedricità sulla scena.
Insomma, in un film che fa del "bisogno" un motore per il guadagno, emerge nettamente una prospettiva: non è più necessario evitare di mettere in scena realtà che il pubblico potrebbe faticare ad assimilare e gustare, basta saperci fare nel ruolo di registi e sceneggiatori.

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