Quando una porta si chiude, un’altra si apre. In ungherese si dice Ha az egyik ajtó bezár, egy másik kinyílik, ma per noi significa che quando un’esperienza finisce, un’altra è pronta a cominciare. E non vediamo l’ora che accada. Si è conclusa a novembre la tre giorni ungherese che ha visto la compagine europea del progetto capitanato da Arci Solidarietà muoversi tra la capitale ungherese e il confine slovacco, lungo il Danubio. Il 5 novembre, infatti, il gruppo ha trascorso la prima giornata di lavori a Esztergom, nel nord del paese, all’interno di un centro di recupero per bambine e ragazze vittime di traffico di minori e provenienti da contesti difficili: Faktor Terminal lavora da oltre dieci anni quotidianamente con le giovani utenti dell’istituto. Le attività dell’associazione combinano arte e una profonda dedizione umana: l’obiettivo delle operatrici (Niko, Gabri e Luca) è restituire all’infanzia la dignità che le spetta, concedendo a queste giovanissime una seconda possibilità e - al contempo - prevenire la manipolazione e l’emarginazione sociale dei giovani. La proiezione del film realizzato nel 2015, ÁrvÁtom: il sogno di un orfano, ha offerto uno sguardo privilegiato su cosa significhi agire socialmente attraverso arte e teatro quando il governo nazionale rema in direzione opposta.
Il secondo giorno, 6 novembre, il cuore dell’incontro si è spostato alla Central European University di Budapest, fondata da Soros e recentemente chiusa alle attività didattiche da un decreto di Orban dopo l’inserimento all’interno della famigerata black-list, di cui sono vittima anche entrambe le associazioni partner del consorzio di WE. La Subjective Values Foundation ha guidato una giornata di discussioni e attività pratiche esplorando il lato informale (ma non per questo meno essenziale) del sogno democratico. La mattina è iniziata presto con workshop interattivi e vivaci scambi di storie personali ed esperienze di partecipazione pubblica. Il fondatore della fondazione, Marcell Lorincz, ha ricordato il valore simbolico dell’università che ci ha ospitato e ha delineato gli obiettivi della fondazione in Ungheria: sostenere un dialogo continuo tra culture, costruire una società aperta sostenibile e promuovere gli ideali europei. Mediare significa rispetto, resilienza e il coraggio di fare un passo indietro per accogliere una nuova cultura e superare gli stereotipi.
Una tavola rotonda ha alimentato la coscienza democratica e l’attivismo del gruppo. I relatori, impegnati quotidianamente nella solidarietà e nei diritti umani in Ungheria, hanno condiviso il loro lavoro sul campo nella missione interculturale. United, Artemissziό, She4She e l’Associazione per la Prevenzione del Genocidio hanno sottolineato l’urgenza di rafforzare le comunità europee: le persone devono prendere coscienza del proprio valore civico, del potere decisionale e della capacità di smascherare i metodi sottili con cui i governi soffocano la resistenza. Il cambiamento nasce dalla lotta contro la polarizzazione e il binarismo, dal mettersi in discussione prima ancora di interrogare l’altro.
Nel pomeriggio del mercoledì, la redazione finale della nostra Dichiarazione di Budapest ha ricordato che nella lotta democratica nessuno è solo: l’oppressione può avere un nome e un volto, ma sotto di essi si nasconde una rete più ampia di disuguaglianze culturali, sociali, linguistiche ed economiche. L’azione e la comunità sono la via da seguire. Il manifesto appena nato riflette un laboratorio dialettico su democrazia, solidarietà, stato di diritto, pace e migrazione, insieme a una pluralità di obiettivi e scenari per un’Europa fondata sulla libertà e sul rispetto. Il 7 novembre, l’ultimo giorno dei lavori ungheresi, l’associazione Altera ha guidato il gruppo in una valutazione dei tre giorni di progetto. Ripercorrere i nostri passi, le nostre azioni e i nostri pensieri è, di per sé, una lezione di democrazia: c’è sempre spazio per migliorare.




