Cinema e Teatro
Un classico sul palco
In questo mondo di tartufi
Un mese in scena per Tullio Solenghi ed Eros Pagni con “Il tartufo” di Molière, che ha esordito allo Stabile di Genova. Ed è proprio Solenghi a spiegarci perché è ancora così attuale
Redazione di Genova | 13 febbraio 2014
Il tartufo di Molière racconta magistralmente la scissione fra essere e apparire: l’apparire conta di più oggi che ai tempi del drammaturgo francese?
Direi sicuramente sì. Anzi, è esasperato ancora di più, anche perché la società dei media privilegia quasi sempre l’apparire. Dopo Molière, un’altra importante lezione ce l’ha lasciata Pirandello. Oggi ne abbiamo un’esemplificazione più degradata.

Dopo I ragazzi irresistibili, ancora Eros Pagni e Tullio Solenghi insieme: si può dire che siete una coppia collaudata?
È un po’ come essere al volante vicino a un pilota di Formula 1: vai tranquillo, non ti accorgi di salite, curve, difficoltà. Il teatro è fatto di relazione: quando dà una battuta in scena, l’attore in un certo senso butta la palla e vuole che gli venga ripassata. Con lui questo avviene in maniera perfetta.

Parliamo della versione di Magrelli, realizzata appositamente per questo spettacolo che ha debuttato in prima nazionale allo Stabile di Genova: ci sono differenze rispetto all’originale?
Di solito diffido delle operazioni di stravolgimento del testo: sicuramente il lavoro di Magrelli è fedele. Capolavori come Il tartufo hanno ancora oggi una loro attualità: interpretazioni che se ne discostano troppo rischiano di far perdere il messaggio del testo.

Perché il pubblico più giovane dovrebbe scegliere un classico come questo?
Perché è un po’ come leggere Dante o Manzoni: sono capisaldi della cultura e della letteratura che non tramonteranno mai. E con Molière c’è una grande agevolazione, perché le sue sono commedie frizzanti e di grande divertimento, ma che non trascurano il contenuto. Nel caso del Tartufo, poi, la radiografia della società che viene messa in scena è di grande attualità.

Chi sono i “tartufi” oggi?
Se ne incontrano tutti i giorni: allora Molière se la prendeva con i tartufi di tipo religioso, falsi ipocriti che attorniavano il re predicando la parola di Dio, ma che poi erano i peccatori più infami. Oggi ne vediamo tanti in politica, pronti a cambiare bandiera a seconda del vincitore, o anche nel calcio, dove la lealtà ha lasciato il posto alle scommesse.

È la prima volta che si cimenta con Il tartufo?
Con quest’opera di Molière ho un rapporto tutto particolare: il primo spettacolo da professionista in cui ho recitato qualche battuta – proprio con la scuola del Teatro Stabile – è stato un esperimento di Squarzina che metteva insieme Il tartufo e La cabala dei bigotti di Bulgakov. Era una sorta di metateatro in cui si affrontava il tema della censura: in quel caso facevo Valerio, oggi interpreto Tartufo e sono felice!

A proposito di ritorno alle origini: cosa prova quando si trova a calcare di nuovo le scene dello Stabile?
È un’emozione trovarsi di fronte alla propria gente, al pubblico che in qualche modo mi ha svezzato. E poi ritrovo i vecchi amici, quelli che hanno iniziato con me, come Carlo Repetti, il direttore dello Stabile, e Marco Sciaccaluga, che mi dirige in questo spettacolo.

Cosa cambia dalla prima all’ultima replica?
Lo spettacolo è una sorta di rito, che ogni sera ha un esito diverso, alle volte bisogna adattare la propria tecnica, il proprio talento agli umori della serata. L’importante è che non cambi in termini di freschezza: lo spettacolo non deve subire il degrado delle repliche.

Senza nulla a togliere a Molière: se potesse scegliere di essere un drammaturgo, chi vorrebbe essere?
Io ho una predilezione per i russi: mi piacerebbe aver scritto L’ispettore generale di Gogol’ e Zio Vanja di Cechov.
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