Serie TV
Rocco Chinnici e la normalità del bene
Un commento sulla fiction andata in onda su Raiuno
Roberto Bertoni | 25 gennaio 2018

La leggerezza, la fragilità, i dubbi e le speranze di un galantuomo: la normalità del bene è andata in onda lunedì sera su Raiuno grazie alla splendida fiction dedicata alla storia del giudice Rocco Chinnici, di cui quest'anno ricorre il trentacinquesimo anniversario della scomparsa. 

Chinnici viene dopo Libero Grassi, l'imprenditore che pagò con la vita il suo rifiuto di piegarsi alla barbarie del pizzo, dopo Felicia Bartolotta Impastato, madre di Peppino Impastato, dopo Boris Giuliano, il commissario di polizia assassinato nel luglio del '79 per il suo coraggio e le sue inchieste sempre più scomode, e dopo la bella serie diretta da PIF, dedicata alla Palermo di fine anni Settanta, con i suoi intrecci luridi fra la peggior politica e il cancro di una piovra capace di infiltrarsi in tutti i gangli del potere siciliano e non solo. 

Rocco Chinnici è andato in onda per rendere omaggio a un'idea di giustizia e a una certa visione del mondo, fondata sulla correttezza, sulla legalità e sul rifiuto di ogni forma di collusione con quanti promettono pane sporco in cambio di sudditanza e asservimento. 

Va detto, a tal proposito, che Sergio Castellitto si è superato nella sua interpretazione, riuscendo a rendere un'idea di sobrietà, di senso del dovere e di amore per lo Stato e per le istituzioni che non lasciavano intravedere la pomposa figura dell'eroe bensì la semplice personalità di un uomo convinto di star compiendo solo il proprio dovere. Che poi quella rettitudine morale abbia consentito alla Sicilia e all'Italia di non sprofondare nella vergogna, riuscendo parzialmente a riscattarsi grazie alla creazione del pool anti-mafia e al successivo maxi-processo portato avanti da Falcone e Borsellino sotto la supervisione e e con i consigli preziosi di Antonino Caponnetto, tutto ciò rende effettivamente la figura di Chinnici speciale e degna della massima stima e gratitudine. Fatto sta che il capolavoro di questa RAI, almeno quando si occupa della lotta alla mafia, sta nel saper raccontare i protagonisti di questa battaglia proprio come loro avrebbero voluto essere trattati: senza enfasi, senza esagerazioni, mostrandoli nei loro aspetti più intimi, dolenti e meravigliosamente umani. 

La fiction di lunedì sera, tratta dal libro della figlia Caterina, ci mostra i tanti baci sulla fronte dati da un magistrato in trincea ad una ragazza che aveva deciso di seguire le sue forme, scegliendo di andare avanti anche dopo l'assassinio del padre e, anzi, traendo da quella perdita la forza per condurre con ancora maggiore intensità la propria sfida ad un morbo che impesta da oltre un secolo e mezzo una terra stupenda e maledetta. 

Come spesso capita quando c'è di mezzo Castellitto, poi, che stia dietro la macchina da presa o reciti in prima persona, l'intero cast ha dato il meglio di sé, mettendo in evidenza dei profili di attrici di altissimo livello e un'intensità complessiva della narrazione davvero ammirevoli.

Rocco Chinnici dopo Terranova e Dalla Chiesa, dopo Pio La Torre, Michele Reina e Piersanti Mattarella. Rocco Chinnici vittima fra le vittime, martire fra i martiri, il cui ricordo vive proprio perché si tratta di un "primus inter pares" in grado di resistere all'usura del tempo e ai costanti tentativi, da parte di una certa politica, priva di idee e di dignità, di piegare la realtà storica ai propri miseri interessi di parte. 

Rocco Chinnici ha pagato con la vita il proprio struggente desiderio di essere un uomo normale e di regalare un po' di normalità alla propria terra, dunque l'esatto opposto di chi compie ogni singola azione sperando di essere ricordato come l'eroe dei due mondi. Anche per questo, nonostante l'assassinio, ha vinto la sua battaglia: perché il solo fatto di non essere caduto nell'oblio rende possibile indicarlo come esempio alle nuove generazioni, compiendo una forma di educazione civica della quale si avverte, più che mai, il bisogno. 

Rocco Chinnici: ancora una volta, grazie per averci fatto sentire meno soli, più giusti e più liberi. 

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